Un'utopia di pace oltre il silenzio
«E ancor silenzio!» Divorato dalla solitudine, smanioso di tornare alla vita di battaglia che dovrebbe portarlo a espugnare Gerusalemme, un Eremita s'interroga sul destino – suo e del mondo che l'interpella – mentre tutto sembra essere precipitato in una calma apparente, inquieta, velata di angoscia. Ascoltare I Lombardi alla prima crociata di Giuseppe Verdi, e in particolare il secondo atto, fa uno strano effetto, in tempi di lockdown : perché esistono isole felici sottratte al silenzio, oasi di musica dove – nel rispetto della più rigorosa normativa e di ferrei controlli – si è deciso di uscire dalle caverne e di fare come il personaggio verdiano, pronto a sguainare la spada per affrontare il nemico. Che non è più – fortunatamente – il «branco musulmano», come si legge nel libretto di Temistocle Solera, ma è forse più sottile, sfuggente pericoloso: la paura, l'indifferenza, il ristagno culturale.
Ci perdoneranno, i nostri quindici lettori, questa breve, ma doverosa premessa, ma chi scrive non ascoltava un'opera dal vivo da fin troppe lune. E ritrovarsi seduto su una poltrona di velluto, con un'orchestra, un coro e degli artisti impegnati sul palcoscenico ha rischiato di essere abbastanza traumatico: tutto questo accade realmente, in questo primo scorcio di primavera, all'Opéra di Monte-Carlo, gemma del Principato di Monaco, dove prosegue a spron battuto una stagione con titoli di straordinario
'coraggio' – addirittura il monumentale Boris Godunov, che non prevede certo un organico a scartamento ridotto. Fare spettacolo si può, con cautela, coraggio e determinazione: evitando l'abbuffata di titoli del grande repertorio, e, anzi, andando a riscoprire pagine meno frequentate della storia del melodramma, ma non per questo di minor rilievo.
In questa sede si riferirà dunque della recente produzione dei Lombardi alla prima crociata di Giuseppe Verdi, che ha debuttato a Monte-Carlo – 178 anni dopo la prima esecuzione – con vibrante successo di pubblico: riscuotendo consensi fors'anche imprevisti, da parte di un pubblico attentissimo, pronto a calarsi nell'ascolto di un Verdi giovanile, ma certo più pensato, meditato e profondo del Nabucco che immediatamente lo precede in catalogo. Certo I Lombardi sono un'opera fortemente sperimentale: a partire dal carattere squisitamente romanzesco del libretto di Solera, cavato dal poema omonimo di Tommaso Grossi, che si snoda da Milano a Gerusalemme, passando per Antiochia, in spregio assoluto non solo delle unità aristoteliche, ma in molti passaggi anche della logica pura e semplice, tra processioni e battaglie, vendette incrociate, amori impossibili e imperscrutabili agnizioni. Ma sta proprio in questo il bello di questa partitura: che più ancora di Nabucco costringe l'autore a soluzioni inattese, tra le quali una
'Visione' per violino solo, che anticipa di mezzo secolo l'analoga intuizione del Massenet di Thaïs.
Rappresentare I Lombardi può essere, dunque, estremamente semplice – laddove ci si accontenti di una lettura di primo livello, pronta unicamente a evidenziare il carattere più ruvido del primo Verdi – ovvero complesso: ma non per questo di ardua fruizione, quando i livelli di interpretazione si moltiplicano e arricchiscono l'orizzonte semantico dello spettacolo. È quanto avvenuto a Monte-Carlo, che ha fatto assegnamento su una distribuzione internazionale – tra le migliori oggi ipotizzabili – ma affidata alla bacchetta di Daniele Callegari, a buon diritto considerato tra i grandi interpreti dell'Ottocento italiano e che già da molti anni aveva in repertorio l'opera verdiana. Non è un caso, allora, se esalta i colori dell'Orchestre Philharmonique de Monte-Carlo, compagine di grande duttilità nell'assecondare un ritmo narrativo sempre avvincente, che inchioda lo spettatore ma che si schiude anche su oasi di intenso lirismo: come per la ‘Visione' prima citata, in cui s'impone l'elegante assolo del violino di David Lefèvre. La continuità narrativa scaturisce dalla perfetta gestione dei tempi, dalla compattezza dell'amalgama tra fossa e palcoscenico, in cui – tra l'altro – agisce anche il coro monegasco, morbidissimo nella pasta modellata dalla direzione di Stefano Visconti, applaudito a scena aperta dopo un commovente «O Signore, dal tetto natio». E proprio questo spiega le ragioni del successo della direzione di Callegari: le mille miglia lontana da ruspanti bellicosità ‘risorgimentali', e al contrario pronta a sottolineare la vena rapsodica, romanzesca, sempre pulsante della partitura verdiana, che poi coagula e condensa nei formidabili tableaux su cui calano i quattro sipari: autentica esplosione di ‘affetti' contrastanti, sublimati nella ricerca di un percorso che solo al termine dell'opera rivelerà tutta la sua carica di ricerca di fede, oltre che di potenza espressiva.
Cantare I Lombardi è poi, autentica impresa, perché è opera scritta per cantanti che avevano illuminato la tarda stagione rossiniana e donizettiana, ma che erano ormai pronti alle innovazioni linguistiche del giovanissimo Verdi: Nicolas-Prosper Dérivis, il primo Pagano, era stato interprete privilegiato del repertorio di Meyerbeer (Les Huguenots), Berlioz (Benvenuto Cellini) e Donizetti (dai Martyrs a Linda di Chamounix), prima di essere il primo Zaccaria in Nabucco; la prima Giselda, Erminia Frezzolini, figlia del celeberrimo buffo Giuseppe, primo Dulcamara, vantava invece illustri frequentazioni belliniane (era stata la prima Beatrice di Tenda a Firenze nel 1838); mentre il tenore Carlo Guasco, che aveva debuttato alla Scala nel 1836 in Guglielmo Tell, sarebbe diventato tenore prediletto da Verdi, tenendo a battesimo, dopo il ruolo di Oronte, anche quelli di Ernani e di Foresto in Attila. Si tratta dunque di ruoli estremamente impegnativi, per i quali è indispensabile la padronanza della tecnica belcantista ma, al tempo stesso, un approccio che si schiuda verso i nuovi orizzonti del dramma verdiano. Michele Pertusi rappresenta, in tal senso, quanto di meglio esista sulle scene liriche contemporanee. Ancora una volta, il suo Pagano colpisce per l'improvviso mutamento – fisico, vien quasi da dire – tra il personaggio fiero e vendicativo del primo atto e quello, ascetico e visionario, dell'eremita penitente in Terra Santa. Ma più ancora della sua interpretazione, è impressionante la sua capacità di scavo nella ‘parola scenica' verdiana. La gran Scena del secondo atto gli permette di attraversare tutte le sfumature di un ruolo sfaccettato, pronto all'invettiva guerresca come al perdono cristiano; e la visione finale di Gerusalemme conta tra i momenti in cui lo splendore di un manto vocale di straordinaria morbidezza e di formidabile omogeneità diventano strumento, segno della potenza divina.
Se la prova maiuscola di Pertusi era solo una prevedibile conferma, c'era attesa per la Giselda di Nino Machaidze, ben nota per le sue interpretazioni rossiniane ma ora alle prese con il primo ruolo drammatico verdiano. La sicurezza, lo slancio della coloratura, sperimentate in precedenza, si uniscono adesso a uno smalto, un'incisività, una rotondità di emissione che restituiscono tutto l'ardore della fanciulla milanese, donna appassionata e ancipite tra amore e fede in Medio Oriente. Se il suo «Salve Maria!» viene cesellato con grande gusto dell'arcata melodica, è nel Finale II che risiede il nucleo focale della sua interpretazione: nell'improvviso turbamento che improvvisamente la coglie di fronte alla ferocia delle truppe cristiane – «(quasi colpita da demenza)», recita infatti il libretto – e nell'impeto con cui prorompe in un'invettiva («No!... Giusta causa – non è Iddio») di travolgente forza espressiva. La sua Giselda matura così tra rimembranze manzoniane («Oh belle, a questa misera | tende lombarde, addio!»), visioni salvifiche («Oh! Di sembianze eteree») e ansia di redenzione («Non fu sogno! In fondo all'alba»), in una cabaletta che – con le sue agilità di forza – suggella una prova che schiude all'artista georgiana nuove prospettive di carriera.
Nel terzetto dei protagonisti, Oronte è certo un ruolo di potenzialità più ridotte. Ad Arturo Chacón-Cruz va il merito di averlo interpretato con cura, grazie alla generosità, alla franchezza e alla freschezza di un timbro ‘latino' e seducente, e soprattutto all'intatta facilità nel registro acuto. Rivaleggia, in questo, con il secondo tenore, Antonio Corianò, Arvino dalla lama rilucente, svettante nella splendida pagina del Finale ultimo. Di ottimo livello sono anche gli interpreti dei ruoli comprimariali: il persuasivo, nitido Pirro di Daniel Giulianini, l'accorata Sofia di Michelle Canniccioni e l'agguerrito Acciano di Eugenio Di Lieto, con la Viclinda di Cristina Giannelli e il Priore di Rémy Mathieu.
A diciotto anni dal debutto al Regio di Parma, ha ripreso vita lo storico allestimento firmato dal compianto Lamberto Puggelli, anche in questa occasione affidato alle meticolose cure di Grazia Pulvirenti. Costituì, a suo tempo, non soltanto un ulteriore tassello nel percorso verdiano del regista milanese – un percorso particolarmente significativo, soprattutto per quel che riguarda i titoli degli 'anni di galera', riportati in scena dopo un lunghissimo periodo di silenzio; ma anche, e forse di più, nell'intera sua parabola artistica. Da un lato per quella dimensione narrativa che qui viene affidata a Giselda, spettatrice 'esterna' all'azione – sin dal Preludio, in cui vede l'azione attraverso un velo di tulle – e poi protagonista, in prima persona, di un dramma dal quale prende vigorosamente le distanze. È dalla voce di una donna, una delle 'ultime' della società, vittima di violenze, rapine e soprusi, che promana un grido di sdegno, una condanna che non riguarda solo le crociate («No, Dio no'l vuole!») ma anche le atrocità del mondo contemporaneo, che punteggia le proiezioni sullo sfondo, insieme con la ricorrente riproduzione di Guernica di Picasso, una sorta di fil rouge delle produzioni di Puggelli sin dalla Forza del destino scaligera del 1978.
Ma, d'altro canto, è questo solo uno degli spunti che emergono dalla lettura del dramma verdiano: perché le scene di Paolo Bregni sono un concentrato di visioni pittoriche, dalla Milano ambrosiana e medievale, da cui viene proclamata la crociata, sino al sogno d'Oriente che 'accoglie' lo spettatore all'arrivo ad Antiochia, un turbinio di luci e di colori che ricorda le visioni di William Turner tra bufere e tempeste nel deserto. Tutto questo si rifrange nelle scelte di colori dei costumi di Santuzza Calì, parzialmente rivisitati per l'occasione, che trapassano dal blu notte del primo atto all'ocra, all'arancio e al rosso dell'Oriente degli altri tre, in un gioco di inserti cromatici destinato a trasfigurare la realtà, conferendole una connotazione onirica. Era proprio questa, probabilmente, una delle cifre più significative della poetica di Puggelli: l'incontro – e lo scontro – tra la realtà e la finzione della scena, inizialmente vuota, ma progressivamente abitata dalle passioni, dalle emozioni, dalle storie dei personaggi e delle masse. Per questo, dal secondo atto in poi, è il Muro del Pianto a campeggiare sullo sfondo del palcoscenico: quello di ieri, innanzi al quale si svolgono le formidabili, avvincenti battaglie tra crociati e musulmani regolate dal maître d'armes Renzo Musumeci Greco; quello di oggi, innanzi al quale convivono esponenti delle tre religioni; e, sullo sfondo, quello della visione illuminista del Nathan il saggio di Lessing. I Lombardi alla prima crociata si concludono così alle porte della Gerusalemme del mito, terra promessa di un'utopia di tolleranza e di pace che d'improvviso si schiude sfolgorante di luce: sicuramente un auspicio, oltre che un'inestinguibile speranza.
Giuseppe Montemagno
9/4/2021
Le foto del servizio sono di Éric Dervaux.
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