RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Don Carlo al Festival Verdi

Il Festival Verdi 2016 è stato inaugurato con una nuova produzione di Don Carlo di Giuseppe Verdi nella versione di Milano 1884. È la prima volta che il Festival di Parma allestisce Don Carlo e sceglie la versione più breve che il compositore rivide per le recite alla Scala. È da augurarsi che questa sia la prima tappa dell'opera a Parma, che mancava dalla stagione 1998, poiché il Festival avrebbe il dovere di farci ascoltare e vedere anche le altre versioni dell'opera a cominciare dall'originale in francese e con balletto di Parigi 1867, e in seguito, magari, le cinque diverse alternative: originale e integrale (in francese) precedente i tagli effettuati anteriormente alla prima rappresentazione 1866, la partitura pubblicata nel 1867 in cinque atti con balletto (in francese), la versione di Napoli 1872 (in italiano), la versione di Modena 1886 in cinque atti senza balletto (in italiano). Nessun'altra opera di Verdi raccoglie tanto materiale variegato alternativo o sostitutivo, e ogni volta che non si sceglie la versione di Milano, che molti considerano erroneamente “la definitiva”, siamo di fronte a versioni “collage” con tagli e aggiunte arbitrarie secondo le ispirazioni dei direttori. Il Festival Verdi avrebbe il compito di rappresentare le molteplici versioni.

Delude il nuovo allestimento di Cesare Lievi, il quale si avvale di un valido scenografo e costumista come Maurizio Balò. Egli ha ideato una scena anche suggestiva, pur con qualche scivolata nel ricreare le tombe degli Asburgo all'Escorial di marmo bianco e la cartina geografica nello studio di Filippo che traccia l'Impero con errori di conquista. I costumi sono belli e in linea con la cattolicissima e austera corte spagnola del tempo. Bizzarro il mantello cappotto di Filippo con tanto di collo in pelliccia che parafrasava una moda molto più recente. Tuttavia è la scelta registica a penalizzare lo spettacolo, con scelte non solo discutibili, talvolta stravaganti e del tutto fuori linea nella situazione storica, e la mancanza di caratterizzazione dei personaggi, i quali sono complessi ma molto precisi nella visione dell'autore. A questo si devono aggiungere scene del tutto superflue, in particolare il frate che pulisce il pavimento delle tombe nella prima scena, il ridicolo balletto delle damigelle durante l'esecuzione della “Canzone del velo”, e l'inutile presenza di Elisabetta nell'assolo di Filippo all'inizio del III atto. A questo va aggiunto che il regista, pur dovendo osare di più, ha avuto anche idee molto apprezzabili nella seconda scena del II atto (piazza di Nostra Signora d'Atocha) quando nella sfilata dei carri degli eretici appare anche un carro colmo di libri (volumi di cultura eretica) e nel momento in cui Filippo esclama “Disarmato sia”, i deputati fiamminghi bloccano le guardie che avrebbero dovuto eseguire l'ordine. Nel complesso uno spettacolo visibile ma che ci saremmo aspettati più incisivo e “scolpito” drammaturgicamente.

L'Orchestra Filarmonica “Arturo Toscanini” non era nella forma ideale della sua fama e Daniel Oren non concertava con la dovuta perizia che solitamente usa in altri repertori, disordinato nel gesto, sbiadito nei colori e con piatte dinamiche orchestrali. Il Coro del Teatro Regio, diretto da Martino Faggiano, assolve il suo compito con buona professionalità.

Il cast era piuttosto alterno, anche se la serata ha subito un'influenza negativa per un malore in scena. All'inizio del primo atto quando Don Carlo ha iniziato il duetto “Dio che nell'alma infondere” Rodrigo di Posa, Vladimir Stoyanov, si accasciava come svenuto sulla struttura di un inginocchiatoio. Portato dal collega dietro le quinte, dopo circa un quarto d'ora riprendeva il suo posto e finiva la scena, con esito non certo eccellente, ma plausibile era la situazione, il pubblico ha compreso e salutato con un caloroso applauso d'incoraggiamento. L'opera continuava senza intervallo e quando il paggio annuncia il Marchese di Posa che entra nel giardino della scena seconda, vediamo arrivare un altro cantante. Non era possibile avvisare il pubblico, si è fatto dopo l'intervallo, Stoyanov è stato sostituito da Gocha Abuladze, presente in teatro come doppio. Sul primo ovviamente non è possibile esprimere giudizi, abbiamo saputo in seguito che ha avuto un abbassamento di pressione e non era in grado di sostenere il ruolo. Del secondo, tolto l'aspetto terrorizzato iniziale (comprensibile per le circostanze improvvise in cui è stato catapultato in scena) possiamo dire che possiede voce molto bella e di buona proiezione. Nel corso dell'opera ha preso anche più vigore e sicurezza e nella seconda parte abbiamo avuto un serio e volenteroso professionista, il quale è anche in possesso di calibrato fraseggio. Sarà interessante ascoltarlo in futuro in situazioni meno burrascose.

José Bros, Don Carlo, dopo una partenza buona nel corso della rappresentazione ha avuto un calo di prestazione, forse per lo scompiglio iniziale, e la resa non è stata delle migliori rispetto allo standard dell'artista: voce sovente nasale e stentorea, un limitato uso del registro acuto, il quale è emerso nella scena della Piazza di Atocha e nel finale. Essendosi fatto annunciare all'inizio del II atto non è possibile dare un giudizio reale, tuttavia non era il cantante che ben conosciamo.

L'Elisabetta di Serena Farnocchia difettava per scarso carisma, assenza di colore vocale ed espressione a senso unico. Eppure la voce sarebbe interessante ma è poco proiettata e questo aggrava un canto che dovrebbe essere più lirico, ricco di sfumature e ispirato.

Marianne Cornetti, Principessa Eboli, ha parecchia difficoltà nel canto fiorito della romanza del velo, inoltre le cadenze sono raffazzonate e il registro acuto parecchio compromesso. Nelle altre due scene sfodera più vigore e un accento anche più incisivo, pur non rimediando ai difetti d'impostazione generale, gli acuti sono sempre compromessi anche se si deve riconoscere una certa veemenza e un discreto temperamento.

Pregevole il Grande Inquisitore di Ievgev Orlov, anche se l'accento potrebbe essere migliorato, brava Lavinia Bini, Tebaldo, frizzante e delizioso fanciullo di buona espressione. Simon Lim era un corretto Frate e Gregory Bonfatti un eccellente Conte di Lerma e Araldo reale.

Un plauso particolare va ai sei deputati fiamminghi, coesi nel canto e con voci armoniche e molto possenti. Pe correttezza li citiamo: Daniele Cusari, Andrea Goglio, Carlo Andrea Masciadri, Matteo Mazzoli, Alfredo Stefanelli e Alessandro Vandin.

Infine, ma non per questo ultimo, Michele Pertusi, Filippo II, che salvo errori di chi scrive debuttava il ruolo. Il cantante ha sempre centellinato e ben calibrato, nel corso della ormai lunga carriera, le sue esibizioni in terreno verdiano. È arrivato ora, giustamente, alla soglia dei dieci lustri, ad affrontare un ruolo di basso considerato tra i più importanti per la sua corda vocale. Egli lo canta con la sua voce, tendenzialmente chiara, senza cercare inutili imitazioni. Il risultato è positivo, ed è il cantante che maggiormente ha convinto. Eccellente la scansione della parola, il ricercato fraseggio, l'espressione regale abbinata a una movenza teatrale rilevante. Nella grande aria del III atto trova accenti ed espressioni di grande pathos ritagliandosi un meritato successo personale. Vorrei aggiungere che l'assolo del violoncello nell'introduzione era superbamente eseguito dal professore dell'Orchestra Toscanini.

Al termine di una recita che sarebbe potuto essere interrotta, il pubblico ha premiato il volenteroso impegno di tutta la compagnia con calorosi applausi, con punte per Pertusi, ma siamo ben lontani da una rappresentazione memorabile, ma uno spettacolo dal vivo riserva anche questi inconvenienti, stavolta è andata così.

Lukas Franceschini

22/10/2016

Le foto del servizio sono di Fabio Ricci – Verdi Festival.