RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Londra

Ancora il Don Giovanni High Tech

Dicevo l'anno scorso sulla produzione nata qui ma che avevo visto per prima a Barcellona: «Quest'allestimento presentato per la prima volta al Covent Garden di Londra per la regia di Kasper Holten è stato molto gradito dal pubblico ed è stato valorizzato dal Teatro stesso in quanto spettacolo high tech – non mi è sembrato poi così tanto, tantissime proiezioni, scena unica a due piani con scale che gira in continuazione, belle luci, bei costumi – a parte che di contadini non se ne vedono: tutti nobili, borghesi, piccoli borghesi piuttosto dell'Ottocento. Direi non male anche se ci sono tante cose che trovo superflue: un Commendatore in vestaglia che si aggira ogni tre scene, delle amanti del protagonista – alcune già morte che lo guardano bieco – il coro tra le quinte alla fine dell'atto primo, la presenza costante di Don Giovanni durante le arie delle sue conquiste –reali o presunte, assenza di servitori nel primo quadro, un Don che si tocca o fa dei gesti osceni – il più saporito alla fine di Là ci darem la mano dove cerca di penetrare Zerlina in piedi di dietro. Naturalmente Anna è perfettamente d'accordo con la sua seduzione e le forzature posteriori di regia per questo personaggio cercano di essere coerenti ma musica e testo – anche se tradotto come conviene – lo smentiscono.» Non ho motivi per cambiare idea, ma importante è dire che qui si finisce, come Mozart anche permetteva, con il finale del libertino e quindi niente concertante con la morale Quest'è il fin di chi fa mal.

Qui a Londra si riprendeva già per terza volta questa produzione con altro cast ma con lo stesso protagonista anche se in qualche modo non uguale a se stesso. Non ricordo Mariusz Kwiecien così ispirato al Liceu, e in particolare durante il secondo atto a partire dalla scena del cimitero: qui quest'uomo tormentoso pare cercare disperatamente l'incontro con il suo destino in una voluttà di annientamento e forse voluta solitudine incredibili. Poi la sua voce era in forma smagliante. Quest'ultimo va detto anche di Ildebrando D'Arcangelo, la cui voce è oggi ancora più scura, ma anche più pesante e meno flessibile, e per di più spesso si dava a caccole di cattivo gusto facendo di Leporello piuttosto una macchietta se non addirittura una caricatura. Pavol Breslik (Ottavio) evidenziava come nel suo recente Nemorino a Barcellona poco o niente squillo e tensione nel registro acuto. Il fiato, bene amministrato grazie ancora alla tecnica, sembrava più di una volta a rischio. Hrachuhi Bassenz risultava piuttosto scolorita nei panni di Donna Elvira, con un acuto poco governabile, agilità difficili e un centro e grave di scarsa consistenza e poco interesse; come interprete non male ma non lasciava traccia. Rachel Willis-Soerensen è stata una Donna Anna molto applaudita, e il suo Non mi dir, buono ma per niente eccezionale riceveva l'ovazione della serata. Ultimamente osservo che passano per dei fuoriclasse cantanti sì buoni o professionisti ma per niente geniali. Come la sua collega Bassenz sembra avere un repertorio sterminato in diverse lingue. La voce sembrerebbe quella di un soprano liricoleggero, almeno nel registro acuto, non illimitato in estensione ma piacevole, ma grave e centro per la maggior parte della serata sembravano vuoti o sfocati. Tutto sommato tra le signore spiccava Chen Reiss, una brava Zerlina dal timbro piuttosto impersonale e metallico, e non abbastanza graziosa come artista, ma comunque infinitamente superiore al mediocre Masetto di Anatoli Sivko. Willard W. White (il Commendatore arcipresente in quest'allestimento) fa un certo effetto ancora grazie al suo volume, ma mica tanto in quanto colore e acuti. Il coro preparato da William Spaulding si mostrava in buona forma, anche se non è questo il titolo per giudicarlo meglio.

Le tre ore non passavano – per me – in un soffio ma il pubblico sembrava più che soddisfatto. Non sembrava lo stesso che si scandalizzava per un allestimento procace del Guillaume Tell tre anni fa, forse perché siccome qui si tratta di un dissoluto punito è morale far vedere certe cose che nella storia di un eroe svizzero urtano le sensibilità.

La cosa migliore, in fin dei conti, insieme al lavoro magnifico di Kwiecien era la direzione di Marc Minkowski, che dimenticava l'ortodossia filologica, un po' presente purtroppo negli archi piuttosto aridi e soprattutto nello sbilanciamento in favore dei violoncelli durante Batti batti, e faceva suonare benissimo l'eccellente orchestra e in modo molto espressivo, forse più nel senso drammatico che non in quello giocoso.

Jorge Binaghi

12/7/2018

La foto del servizio è di Bill Cooper.