RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Contestata la regia di Michieletto per la Damnation de Faust, titolo inaugurale della stagione romana Applausi per l'esecuzione musicale

Con le sue smisurate ambizioni, il Faust goethiano ha rappresentato un punto di confronto obbligato per numerosi compositori. Molti lo hanno affrontato, sfiorandone appena la complessità. Lo stesso Goethe, del resto, considerava il suo lavoro tanto ampio e composito da risultare refrattario a qualsiasi gabbia operistica. Forse il solo Schumann ha compreso il sostrato filosofico sotteso all'opera letteraria, inoltrandosi nei labirintici percorsi che innervano il testo, sostenendolo come una cattedrale gotica. Avvicinandosi all'universo del grande tedesco, Berlioz si sente attratto in special modo dagli aspetti luciferini e demoniaci della vicenda. Pochi hanno saputo interpretare con la medesima intensità le ridde stregonesche, le atmosfere nebbiose della Germania romantica.

Prima di commentare lo spettacolo pensato da Michieletto per il Teatro dell'Opera romano preme chiarire quali siano, a nostro avviso, gli obiettivi di una regia di teatro musicale. In primo luogo evidenziare quello che è già insito nel testo, senza tradire il dettato musicale, esplicitarne i contenuti senza sovrapporne altri, per il vano gusto della modernizzazione. E ancora cogliere l'universale nel particolare, parlare al pubblico contemporaneo senza tradire lo spirito originario della partitura. Interpretare e stravolgere sono due termini antitetici. I grandi universi, come quello wagneriano, si prestano a innumerevoli visioni proprio in virtù del loro carattere totalizzante. Il mondo poetico di Berlioz, pur più limitato, presenta comunque coordinate ben definite. Il compositore francese non aspira tradurre in musica il dettato goethiano, ma si affida a una drammaturgia rapsodica e sfuggente. La stessa geografia compositiva dell'opera, costituita da frammenti sgorgati dalla mente del musicista nei luoghi e nelle occasioni più disparate, in linea con una visione totalmente romantica dell'ispirazione estetica, parla di un andamento lontano da qualsiasi linearità operistica. Faust diviene l'incarnazione di una personale inquietudine, proiezione di sregolatezza frenetica tipicamente giovanile.

In quest'ottica l'interpretazione di Michieletto non appare del tutto peregrina. Il suo Faust è un emarginato che soffre delle esclusioni tipiche del nostro tempo, quali il bullismo che segna per sempre il suo carattere. Mefistofele è il suo doppio, proiezione della parte più oscura della sua anima, incarnazione di quell'impulso autodistruttivo che spinge il protagonista sulla soglia dell'annientamento. Fin qui l'impostazione generale dello spettacolo. Peccato che la sovrabbondanza di idee, talvolta distribuite in maniera confusa e schizofrenica, risulti alla fine stucchevole. Michieletto sovrappone una propria trama al dettato originario, e qui sorge una prima domanda sulla legittimità di tale operazione. Riempire quanto viene lasciato volutamente libero appare già una forzatura. Faust viene presentato come un outsider, un debole emarginato e vessato a scuola dai suoi compagni. Alla nostalgia verso una figura materna affettuosa e comprensiva si contrappone l'immagine di un padre alcolizzato. Il desiderio di annientamento deriva dunque da queste frustrazioni, e non dalla consapevolezza dei limiti invalicabili della condizione umana. Trasporre il mito nel quotidiano significa ridurne gli orizzonti, banalizzare la profondità di un testo che si basa sugli archetipi del genere umano, sulle grandi domande alle quali non è dato trovare risposta, nonostante un continuo interrogarsi. I momenti migliori sono quelli in cui Michieletto asseconda il carattere fantastico della narrazione, come quando ricostruisce pezzo per pezzo il giardino dell'Eden di Cranach in stile pop art, o quando introduce elementi ironici, come nella vestizione di Mefistofele in veste di serpente tentatore, mostrata al pubblico attraverso lo schermo che domina la scena. Proprio quest'ultimo è il vero protagonista dell'allestimento. Le sue movenze sfacciate e aggressive contrastano con la passività di Faust, visto come una semplice marionetta nelle sue mani. Nella sua ansia narrativa, sovente il regista sfrutta elementi già visti, i dettagli ripresi dal cameraman in diretta, o stereotipi del nostro tempo, il bacio omoerotico fra Faust e Mefistofele, o ancora il tentativo di stupro da parte di quest'ultimo ai danni di Margherita la quale, alla fine, troverà comunque la salvezza eterna. Altre cose risultano superflue e indecifrabili, come la lavanda dei piedi di Faust operata dal diabolico tentatore. Didascalico poi il momento in cui Margherita si versa sulla testa numerosi bicchieri colmi d'acqua, per stemperare la fiamma d'amore che rischia di divorarla. Il tutto si svolge in un impianto scenico di essenziale biancore, dove l'assenza di colore assume una valenza semantica e simbolica, come nel Moby Dick di Melville o nel Gordon Pym di Poe. Il coro sovrasta la scena, seminascosto da un velario trasparente. Solo nel finale il nero satura a poco a poco la scena, sino all'apparizione della bara bianca di Margherita, quando il coro annuncia la sua salvazione.

Una contestatrice, dapprima isolata, poi seguita da parte del pubblico, grida al sacrilegio costringendo ad interrompere l'esecuzione. Dopo uno scambio di battute piuttosto violento, gli applausi della sala placano il tumulto permettendo alla recita di andare avanti. Al di là di queste esternazioni plateali e sempre sgradevoli, perché il dissenso si manifesta alla fine, senza creare un disagio a danno degli interpreti, lo spettacolo di Michieletto presenta alcuni spunti interessanti, ma si perde in un horror vacui tipicamente post-moderno e purtroppo già datato. Scandalizzarsi per una tale messa in scena è assurdo e fuori moda, considerando la storia della regia d'opera degli ultimi decenni. Segnalare come si voglia contrabbandare per modernità un insieme di luoghi comuni è invece un dovere.

Il direttore Daniele Gatti mostra un controllo assoluto della partitura. La sua lettura appare limpida e sorvegliata, attenta ai più minimi dettagli della trama musicale. Se qualcosa manca è una maggiore aderenza alla sfrenata fantasia di Berlioz. Misurato ma comunque efficace il Faust di Pavel Cernoch, perfettamente in linea con l'impostazione registica che ne sottolinea la passività. Sufficiente la sua prova dal punto di vista vocale, nonostante alcune difficoltà nel registro acuto. Veronica Simeoni interpreta con passione il personaggio di Margherita, ma a volte il canto non è abbastanza sostenuto. Il migliore è Alex Esposito il quale, pur senza avere mezzi di rilevante spessore, incarna un Mefistofele luciferino e screziato da un contagioso istrionismo. Discreto infine il Brander di Goran Juric.

Per dovere di cronaca occorre dire che le contestazioni, alla fine, si sono stemperate in un applauso generalizzato rivolto agli interpreti.

Riccardo Cenci

18/12/2017

Le foto del servizio sono di Yasuko Kageyama.