Un Amleto mai sentito 
Il marcio sarà pure in Danimarca: a Torino no di certo. Per il penultimo titolo della stagione, infatti, il Teatro Regio, fiore all'occhiello del capoluogo piemontese, mette in campo forze registiche poderose e un cast di prima grandezza in una produzione che rimarrà indelebilmente impressa nella memoria e, si spera, sulla lucida superficie di un DVD. Perché stavolta c'è più di un motivo per immortalarla ai posteri.
Oltralpe il pubblico del Theater an der Wien ha appena finito di (ri)scoprire l' Ambleto di Francesco Gasparini (Venezia, Teatro San Cassiano, 1706), ed ecco che, in questo stesso mese di maggio 2025, quello torinese scopre e riscopre l'Hamlet di Ambroise Thomas: lo scopre una generazione che non l'aveva ancora visto – prima della presente, l'ultima messinscena in questo Teatro risale al 2001, in quell'occasione tra l'altro per la prima volta in francese in Italia –; lo riscopre l'intenditore che finora lo aveva ascoltato con Hamlet baritono. Uno dei motivi d'interesse di questa reprise, infatti, è l'adozione, per la prima volta sulle scene (la prima assoluta, il 15 luglio 2022, fu in forma di concerto durante il Festival Radio France Occitanie di Montpellier), del registro tenorile per il ruolo del protagonista, secondo i disegni originali di Thomas, poi adattati a fronte di una compagnia di canto – quella dell'Opéra di Parigi, con cui il lavoro debuttò alla Salle Le Peletier il 9 marzo 1868 – senza un tenore di grido ma con un baritono valente come Jean-Baptiste Faure e soprattutto con un dotatissimo soprano d'agilità quale Christine Nilsson, per la quale Thomas scrisse i non pochi passaggi di bravura del personaggio di Ophélie.
Se ne deduce che, per le convenienze e inconvenienze teatrali, l'originale shakespeariano venne riadattato in chiave melodrammatica, sbalzando in primo piano la liaison dei protagonisti rispetto ai tormenti interiori del giovane principe danese, sulla falsariga di quanto Gounod aveva fatto col suo Faust (1859); ma è da dire che l'Hamlet circolante all'epoca in Francia era quello tradotto e ritoccato nel 1847 da Paul Meurice e Alexandre Dumas père: una versione edulcorata in cui non solo verso l'inizio si aggiunge una scena d'amore tra Amleto e Ofelia, per rendere dipoi più crudo il loro distacco, ma dove addirittura lo spettro del padre ricompare nel finale, salvando all'ultimo il figlio dal suicidio e ordinandogli di vivere e regnare per il suo popolo. E tali furono le varianti adottate anche dai librettisti Michel Carré e Jules Barbier nel fornire a Thomas la materia da musicare.
Con un'ambientazione attualizzata alla contemporaneità di Thomas, e che si rifà all'Hamlet cinematografico di e con Kenneth Branagh del 1997, il mirifico disegno registico di Jacopo Spirei nulla toglie al respiro epico della tragedia del Bardo, o meglio alla sua riduzione operistica: anzi, aggiunge quel quid che, pur non previsto, non stona, e danza in equilibrio con quanto ci si attende. Chi ha presente la pellicola citata, riconosce la tenuta nera con ricami in vista di Hamlet; lo zio Claudius sfoggia l'ermellino bianco e la porpora cardinalizia dell'ampio mantello, che rammemora i dipinti tizianeschi, e che copre la giubba rossa ricca di decorazioni; più sfuggente la fulvicrinita madre Gertrude, tutta sui toni violacei del malva, del peonia, colori insoliti e per una regina, che tradiscono il doppiogiochismo del personaggio, il suo essere fuori posto (come fuori posto sono i suoi… occhiali da sole, al quinto atto); sulla stessa linea, Ophélie rappresenterebbe l'outsider , “quella strana”, destinata ad essere fin dal suo leggero abitino bianco e verde e dagli anfibi, volutamente anomali, la disadattata – rientra nei canoni quando, per la scena di pazzia, veste «une longue robe blanche», come da libretto, con qualche tocco cremisino. E così via, con un Laërte in divisa militare grigia, un Polonius curvo su un bastone in elegante abito rosso – ma anch'egli con gli occhiali da sole, quasi che tutti coloro che mentono e tramano debbano nascondere gli occhi, “specchio dell'anima” – e i becchini, qui convertiti in inservienti d'obitorio, con grembiuli da macellaio in latex nero.
Forti richiami al secondo Ottocento, quindi, con tocchi goth, pop e contemporanei, quelli che traspaiono dagli eleganti e azzeccati costumi di Giada Masi, e gli sfarzi di mostrine dorate e organze plissettate non si contano fra coro e comprimari. Nelle scene d'assieme, quelle di ballo e giubilo, il cinema è forse presente in fugaci cenni al Gattopardo di Visconti. Più interrogativa è la resa dello spettro, che da temibile, inquietante presenza nell'originale, diventa qui una figura ammansita, più “paterna” in senso sentimentale, in contrasto con musica e parole: a piedi nudi, il suo completo color verde oliva chiaro ben si amalgama col campo di grano da cui emerge – un omaggio al Gladiatore nei Campi Elisi? – e dove gioca a palla con Amleto e Ofelia bambini; d'altronde si sa che se tiri in ballo i bambini – e anche il «cavalluccio a dondolo / di quando avevo un cuor», come in questo caso – fai leva su un sentimentalismo scontato ma d'effetto. Ci torneremo.

Lo scorcio sul campo di grano al tramonto si apre dietro due porte a scorrimento; e ciò dà il destro di parlare delle scene di Gary McCann, invero sontuose, curate, dense di particolari. Per lo più si tratta di ricostruzioni di interni, anche quando, come per l'appunto nella scena dello spettro, si dovrebbe essere in esterna, sugli spalti. Una scalea sullo sfondo permette la discesa trionfale della neo-coppia regale a inizio opera: stessa location del quinto atto, che chiude l'opera in perfetta simmetria. Certo, il cimitero trasformato nel lububre obitorio spoetizza un po' l'atmosfera dark dell'originale, vertendo su un underground che lì per lì un po' spiazza. Sotto una luce fredda e contro un muro di piastrelle tutto sbrecciato, i becchini mostrano, su lettighe-tavolacci spostati su rotelle, prima la salma del defunto re, durante il Preludio, poi diversi cadaveri, al quinto atto, coi quali intrecciano un'irriverente danse macabre, e poi Ophélie (da segnalare, giacché se n'è fatto cenno, le ottime luci di Fiammetta Baldiserri: certi tagli su prospettive soprattutto del primo, secondo e quarto atto, non si limitano a illuminare, ma completano e suggeriscono suggestioni pressoché psicologiche). Altri ambienti, come la biblioteca o la camera da letto di Claudius, con un lit à la duchesse d'un cupo scarlatto, evocano mura domestiche indubbiamente più calde e confortevoli, benché vagamente opprimenti. Discorso a parte merita la scena di teatro nel teatro del second'atto. Se si ha presente il gigantesco clown del Rigoletto di Philipp Stölz (Bregenzer Festspiele, 2019), non si avrà che da incrociarlo con l'Elisir di Menghini (Regio di Parma 2024, poi Regio di Torino 2025). Chi non li avesse presenti, immagini, introdotte da una quantità di guitti dalle più diverse fogge (peccato per il taglio del loro coro…), enormi marionette lignee o di cartapesta con teste spropositate, montate su carrelli e mosse dal basso da pertiche: immaginifica e grottesca messinscena della morte di Gonzago, che rivela come Spirei sappia sfruttare tutte le risorse tecniche e tutta l'altezza e la profondità del palcoscenico del Regio. Marionette dalle espressioni vivide, melanconia del re, riso sardonico del fratello, false lacrime della regina.
Lo spettacolo è retto e come commentato da comparse che leggono un libro, inorridendo di quando in quando e che per uscire di scena rotolano a terra – le comparse devono sempre rotolare: camminare è sopravvalutato –; troppo lambiccato l'accostamento alla rappresentazione figurata dei pensieri di Amleto, che si arrotolano su loro stessi, pensieri intrusivi o la ruminazione del lutto (il che spiace, perché è uno dei pochi particolari senza un evidente significato in una produzione altrimenti ricca di simboli e rimandi). Si azzarda l'interpretazione che, essendo l'Amleto una tragedia più da leggere che da inscenare, essi vogliano farci parte di lor lepida lettura, vedendo noi ciò che leggono nel libro – altra sorta di metateatralità, lontana parente del Turco in Italia … con i libri resi svolazzanti farfalle, le cui ali-pensieri si dibatterebbero inanemente – anche qui, forzature registico-psicanalitiche un po' ai limiti.
A proposito di lettura, quella offerta da Jérémie Rhorer, sul podio dell'Orchestra del Teatro Regio di Torino, convince per l'aderenza alla cangiante drammaturgia di Thomas, per l'ottimo servizio reso alle voci, mai coperte e anzi secondate, e per il polso vigoroso con cui conduce un complesso orchestrale di indubbia maestria, tanto negli assiemi, negli afflati lirici che pervadono più di una scena – il sinuoso tema di Amleto agli archi, quasi chopiniano nel suo essere così sanglotant –, quanto nei numerosi passaggi solistici: da segnalare la pregnanza almeno di primo corno e primo trombone nei Preludi, di oboe e corno inglese – quest'ultimo di tristaniana memoria –, del primo flauto per avvolgere Ophélie di fantasmatiche piroette, e dei sassofoni contralto e baritono, invenzione timbrica straniante quasi quanto la glassarmonica donizettiana di un'altra famosa pazza per amore…
Oltre all'Orchestra, degna di nota è l'altra compagine stabile del Regio, il Coro, che, istruito da Ulisse Trabacchin, perviene ad esiti di notevole compattezza, rilevabile anche nelle singole sezioni chiamate a cantare separate (per lo meno quelle maschili), e di spiccata plasticità nell'escursione delle dinamiche, senza contare la coinvolta e multiforme prestazione attoriale.
Uno degli elementi di maggior interesse è, si diceva, l'adozione del registro tenorile per Hamlet. Ci si rifà qui all'edizione musicale curata da Hugh MacDonald e Sarah Plummer edita da Bärenreiter di Kassel, in Italia rappresentata da Sonzogno. A dar voce al dolce principe è un fuoriclasse come John Osborn. Il suo repertorio d'elezione è, si sa, il belcanto italiano e l'opera francese. È ancora vivo il ricordo del suo Tonio nella travolgente Fille del 2023, sempre qui al Regio. La tessitura di Hamlet, tuttavia, che si mantiene sul registro centrale, non è tale da valorizzare appieno le sue doti: il disfogo all'acuto è cauto e contenuto, data l'origine baritonale. I suoi pregi saranno perciò da ricercare altrove. Nella recita di domenica 18 maggio 2025, qui in esame, Osborn dà prova di notevole resistenza lungo l'impegnativa partitura, di fluidità di attacchi, di una voce brillante che corre per la sala, sostenuta da robustezza, elasticità e da uno squillo piuttosto nitido; doti che si uniscono a una lettura particolarmente introspettiva, capace di aderire ai diversi stati d'animo del personaggio, compresa la difficile resa della finzione nella finzione, cui contribuiscono realistici atteggiamenti teatrali. Punti forti sono il duetto con Ophélie al primo atto, il cantabile Doute de la lumiere (sarà servito da spunto a Fontana per il suo «Ah!… Dubita di Dio… / Ma no, dell'amor mio non dubitar!»?), che nella sua gola unisce delicatezza e passione, e soprattutto la celeberrima chanson bachique, resa con spavalda ivresse ancor più rinfocolata in questo carattere allucinato nella sua ripresa del finale d'atto. Ma non si finirebbe più di mettere in luce le numerose raffinatezze e le sfumature del confronto con madre e zio al secondo e terzo atto, la discesa nella tragedia al volgere del quinto, insomma: una lezione di stile, canto e recitazione da parte di un grande.
 Degnissima controparte è l'Ophélie di Sara Blanch: sulle doti d'attrice non si discute, connaturate ad un'estroversa propensione per il palcoscenico – la ricordo in una convincentissima Anne Trulove in un Rake fiorentino. Ma ad emergere lampanti sono le sue capacità canore, in un crescendo emozionale che, dal primo duetto con Hamlet, passando per Sa main depuis hier… Adieu, dit-il e per il terzetto con Hamlet e Gertrude, culminano nella grande scena di pazzia, in cui si riassume ed esaurisce tutto il quarto atto. La scelta di tagliarne per intero il primo tableau – il lungo balletto contadino, inclusione obbligata per un'opera destinata al pubblico parigino ma passabile di elisione su indicazioni dello stesso Thomas; peccato, però: si sarebbe visto/ascoltato volentieri, se non altro per amore di un recupero filologico che avrebbe fatto il paio con Hamlet tenore – ha concentrato così l'attenzione sul vaneggiamento e sulla morte di questa iconica figura. Difficile rendere a parole il sofisticato merletto della gola di Sara Blanch; difficile restituire l'infallibile tecnica delle volatine cromatiche, dei picchettati, degli acuti, naturali, mai sforzati e mai stanchi nonostante la lunghezza e la difficoltà del pezzo; difficile contenere lo stupore e l'entusiasmo sia del pubblico, che esplode in un prolungato applauso a scena aperta, sia del critico, che ne apprezza il timbro argentino, limpido eppure caldo, l'espressività, la flessibilità, il millimetrico controllo nelle fioriture così come la precisione dell'emissione nei trilli in acuto; difficile crederlo: eppure reale. Meno reale è invece il contesto in cui Spirei decide di ambientare questo prodigio. Al posto di «un site champêtre ombragé de grands arbres», immerso in una penombra lattescente si ha uno di quei “luoghi non-luoghi” cui altre volte ho fatto cenno: sullo sfondo, vari mobili sembrano coperti da teli bianchi, come in una soffitta; Ophélie passeggia per il palco lungo sedie che le vengon poste dinanzi da comparse maschili in nero, come se saltellasse sui sassi di un torrente; le comparse femminili in bianco, invece, che si spaventano quando si avvicina, mosse come le altre figure secondo le coreografie di Ron Howell, potrebbero essere i riflessi di altre Ofelie, di altre sue personalità, suggerendo gli sdoppiamenti, le fratture della psiche che inanella frammenti sconnessi di discorso – una tradizione che, raccolta dalle Lucie e dalle Elvire nostrane, ha radici nelle Arianne secentesche. Scenicamente cattivante è l'uso di un grande velo bianco, un sudario in qualche modo “acquatico” entro cui, novella Villi, in riferimento alla ballata che canta, Ophélie scompare inghiottita da un'apertura al centro dei mobili coperti. Non si valuta più la scena per la sua aderenza al libretto, ma per il coinvolgimento emozionale e la resa estetica complessiva. La mente corre al cenotafio di Maria Cristina d'Austria; l'orecchio al traslucido coro fuori scena – ancora una volta, un plauso a questo Coro!
Non da meno è il resto del cast, selezionato con oculatezza in base al ruolo da rivestire. Claudius è un Riccardo Zanellato di lusso, forse un po' opacizzato e alleggerito e con qualche difficoltà in acuto, ma con centri e gravi solidi e un grande impatto scenico. La Gertrude di Clémentine Margaine è un mezzosoprano di straordinaria potenza vocale, financo eccessiva in certi casi, dove certi acuti sfuggono un po' al controllo, venendo come “lanciati”: grande volume, adatta a ruoli wagneriani, cavata vocale importante e bel timbro sanguigno, si accosta a Zanellato per formare una coppia demoniaca con l'accento al femminile: e non si può non pensare a Macbeth e consorte, tanto in senso shakespeariano quanto verdiano.
Molto bene anche per il numeroso comprimariato: partecipi e coinvolti il Marcellus di Alexander Marev e l'Horatio di Tomislav Lavoie, scenicamente riuscito il Polonius di Nicolò Donini, vocalmente validi i Becchini di Maciej Kwasnikowski e Janusz Nosek, quest'ultimo del Regio Ensemble. Per tutti una buona padronanza del franco idioma.
Squillante e baldo, il Laërte di Julien Henric si dimostra un'eccellenza tenorile che si sarebbe voluta ascoltare di più: qualità artistiche che hanno il coniugio in una figura scenica alta e prestante, che non guasta mai, soprattutto in un ruolo da militare come questo. E si sarebbe voluto ascoltare di più anche l'eneo timbro di Alastair Miles, cavernoso e davvero “sepolcrale” nella sua immobilità quasi mononota. Eppure, come si diceva, reso stranamente sentimentale in questa regia, che lo fa sempre accompagnare da Hamlet e Ophélie bambini. Che poi nel finale vada a indiademare il figlio seduto sul «cavalluccio a dondolo» e non su un trono, si potrebbe collocare sulla stessa scia di riflessioni. Come Ofelia si eclissa in un luogo-non luogo assimilabile alla sua mente, tutta la vicenda di Amleto non potrebbe essere una distorta proiezione della sua, nata dal trauma della morte del padre, che non riesce a risolvere e sotto il quale soccombe, pugnalandosi contrariamente al libretto (dove si arresta un attimo prima)? È la vittima di una manipolazione subcosciente, un esecutore del volere del padre, col cui spettro si rappacifica una volta compiuta la vendetta, o ha una sua volontà propria? E il legame con la sua infanzia sarebbe il legame col padre e con le aspettative coltivate su di lui, che si compiono con la sua intronazione (miracolosamente guarito dallo spettro)? Estrapolazioni che esulano dal contesto scenico ma che in qualche modo vi rimandano, aperte a interpretazioni più o meno coerenti. Ma è in questa sfuggevolezza e molteplicità la poesia di questa figura e di questa regia. «Il resto è silenzio».
Christian Speranza
28/5/2025
Le foto del servizio sono di Daniele Ratti e Mattia Gaido.
|