Oltre i Carmina burana
Se Caldéron de la Barca diede vita al “Gran teatro del mondo”, Carl Orff volle tentare – solo all'apparenza più modestamente – un kleines Welttheater, un minuscolo theatrum mundi. È questo infatti il sottotitolo di Der Mond (“La luna”, 1939), settanta minuti d'iridescenti incanti timbrici e bacchiche frenesie ritmiche per uno dei grandi capolavori del Novecento operistico sconosciuti al pubblico italiano. Se – suggeriva Caldéron – lo spettacolo per antonomasia è l'esistenza, e il “meraviglioso” caro al barocco resta il più alto veicolo rappresentativo, Orff, con l'intermediazione dei fratelli Grimm, anziché per la meraviglia opta per l'incanto: quello dell'infanzia (l'ultima battuta spetta a un bambino), ma più ancora quello del fanciullo che vive in ogni adulto, specialmente se vagabondo e ubriacone come molti dei personaggi di quest'operina lieve, eppure tutt'altro che minimalista. Il tutto condito da una comicità “grassa” e una vis picaresca spassose per gli spettatori bavaresi, ma capaci di sedurre anche quel pubblico italiano disposto, una volta tanto, ad abbandonare Pulcinella per Hanswurst.
Der Mond è andato in scena in una nuova produzione al Carl Orff Festspiele di Andechs, una trentina di chilometri da Monaco nella cosiddetta regione dei cinque laghi: da anni, nei complessi della storica abbazia dove il compositore era di casa e fu sepolto, si tiene infatti un festival dedicato all'autore dei Carmina burana, tra boccali di birra, gioia di fare musica in mezzo ai giovani (l'età media dell'orchestra è assai bassa) e un sano appeal post-ideologico. Giacché, ormai, è tempo d'inquadrare Orff per quel genio che fu, anziché continuare a circoscriverlo come improbabile ala progressista dell'estetica musicale nazista (con Pfitzner inteso invece quale alfiere dell'ala più conservatrice).
Davanti a un libretto pressoché irrappresentabile (l'ambientazione tra terra e sottoterra, la luna appesa all'albero e poi frazionata in quattro quarti…) il regista di Marcus Everding sceglie la via della mise en espace, grazie pure al sostanzioso contributo dei video di Raphael Kurig e Thomas Mahnecke, che suggeriscono davvero l'idea – implicita nell'opera – del progressivo evolversi delle fasi lunari. Siamo nei paraggi di un realismo stilizzato (il narratore canta a leggio in abiti borghesi, gli altri recitano e agiscono tradizionalmente) che, però, nulla sottrae né agli incantesimi nella fiaba né a quel rimescolare nell'inconscio proprio della tradizione favolistica dei Grimm. La giusta miscela tra ironia e torbidità è comunque assicurata dal veterano Franz Hawlata, che nei panni sulfureo-celestiali di San Pietro trasformato in guardiano dell'Ade imprime fraseggio plastico, robustezza declamatoria, sfumature sornione. E se la voce ormai non risponde del tutto alle intenzioni, l'arte del porgere resta da fuoriclasse. Manuel König, come narratore, s'impone più per precisione ritmica che capacità di sostenere una tessitura spesso acutissima, mentre i quattro vagabondi incarnati da Michael Schlenger, Adrian Brunner, Benedikt Eder e Thilo Dahlmann sono un prodigio di amalgama vocale e simpatia. Ma il vero collante è la direzione di Christian von Gehren, innamorato di questa musica e del suo festival, che trascina gli strumentisti dell'orchestra giovanile in un caleidoscopio sonoro davvero lunare.
Paolo Patrizi
31/7/2015
|