Manon Lescaut
Puc-cinema anni Trenta
Dopo Auber e Massenet, il terzo a fare il remake dell'«histoire amoureuse» di Manon e Des Grieux è Giacomo Puccini. La sua personale visione di quelli che Montesquieu definiva «l'eroe […] un mascalzone e l'eroina […] una sgualdrina», prende vita fra il 1889 e il 1892, dopo Le Villi (1884, lo stesso anno della Manon di Massenet) ed Edgar (1889).
I lunghi tempi di composizione che dall'Edgar in avanti sarebbero stati una costante nella routine compositiva di Puccini, vennero vieppiù allungati dal non trovare un collaboratore ideale: in un primo momento, al libretto di Manon Lescaut, il cui soggetto venne suggerito a Puccini da Ferdinando Fontana, suo primo librettista, che gli fece leggere il libro, avrebbe dovuto mettere mano Ruggero Leoncavallo, non ancora votato totalmente alla composizione. Il compito passò poi a Marco Praga, poi a Domenico Oliva, finché Giulio Ricordi propose Luigi Illica, futuro punto di riferimento per Puccini assieme a Giuseppe Giacosa. Le stratificazioni del libretto furono tante e tali, che Ricordi preferì pubblicarlo in forma anonima. E, paragonato con quello per Auber, il più borghese e forse anche il più distante, e quello per Massenet, che fra i tre attinge con più abbondanza al testo originale, quello a più mani per Puccini risulta il più ellittico.
L'incontro fra i due all'osteria di Amiens, assente in Auber, in Puccini viene mantenuto come in Massenet. A differenza dei compositori francesi, però, Puccini cassa del tutto la parentesi felice a Parigi di Manon e Des Grieux, che viene soltanto evocata a parole quando ormai Manon si è installata more uxorio a casa di Geronte, per passare, subito dopo l'arresto di lei, sorpresa a rubare gioielli e pronta a fuggire con lo chevalier, alla scena del porto di Le Havre, dove nell'opera di Massenet Manon muore. Qui Des Grieux la raggiunge e si fa ingaggiare come mozzo per seguirla durante la traversata. Il breve quarto atto concentra il focus narrativo sul cammino stentato dei due amanti attraverso la Louisiana, in quella desolazione che solo il finale de La strada di McCarthy può lasciare e con quella perla di Sola… perduta… abbandonata! che Puccini fu in dubbio per anni se mantenere o no. I ripensamenti su questa come su praticamente tutte le sue partiture andarono avanti fino al 1923, all'epoca in cui Turandot arrancava come Manon nel deserto, quando al libretto mise mano anche Giuseppe Adami.
Da questa ricomposizione del romanzo di Prévost emerge una Manon perennemente in ambasce: adombrata dalla prospettiva del chiostro al primo atto, annoiata e arrestata nel secondo, imprigionata nel terzo e deportata nel quarto. Puccini filtra la storia di Manon attraverso una sensibilità e una scrittura post-wagneriana e post-tristaniana, che vede nell'amore continuamente negato e rimandato una delle chiavi di lettura. D'altronde è famosa l'affermazione di Puccini in risposta a Praga che gli fece notare che la riproposizione in ambito operistico di un soggetto musicato appena nove anni prima da Massenet non sarebbe stata esente dal confronto: «Lui la sentirà alla francese, con cipria e i minuetti. Io la sentirò all'italiana, con passione disperata».
Appena nove anni prima: perché la Manon Lescaut di Puccini debutta al Teatro Regio di Torino il primo febbraio 1893, curiosamente nello stesso anno e pochi mesi prima dello sbarco in Italia della Manon di Massenet, decretando l'inizio del successo vero del suo autore, che verrà riconfermato nello stesso teatro tre anni dopo con La bohème. Quella che oggi viene correntemente eseguita non è “quella” Manon Lescaut, ma il risultato della trafila di modifiche successive. Ad ogni modo, fa comunque sempre piacere assistere a un'opera esattamente dove venne battezzata. Per la precisione, è stata ascoltata da chi scrive proprio al Regio di Torino sabato 26 ottobre 2024, all'ultima sua recita del progetto Manon Manon Manon.
Il progetto, come già fatto notare negli articoli precedenti, è stato affidato a un solo team produttivo, che ha visto Arnaud Bernard alla regia, qui in collaborazione con Marina Bianchi, Alessandro Camera alle scene, Carla Ricotti ai costumi e Fiammetta Baldiserri alle luci, più il contributo dei video di Marcello Alongi e dei movimenti coreografici di Tiziana Colombo. Tale scelta ha permesso di realizzare una visione d'insieme unitaria, basata sul dialogo fra cinematografia e teatralità. Le tre opere sono state seguite dallo scrivente in ordine cronologico, Auber-Massenet-Puccini. I risvolti registici di questa scelta “storicistica” sono stati interessanti, perché passando da un'opera all'altra si è assistito come ad uno scollamento sempre maggiore tra cinema e teatro. In Auber venivano ricostruiti dei set cinematografici sul palcoscenico e proiettate scene da When a man loves, del 1927; in Massenet si adattava l'opera a La verité, del 1960, portando al Regio il tribunale del film; in Puccini Bernard guarda al “realismo poetico” del cinema francese degli anni Trenta e Quaranta, intuendo puntualmente la visione pucciniana che vuole emozioni vere, reali, non più il soprannaturale delle Villi e la grandeur francesizzante di Edgar, ma passioni umane, autentiche. L'intima fusione dei due generi, però, qui vien meno, limitandosi la “settima arte” a entrare appena nel primo atto, a farsi più presente e nel secondo, per poi avere un ruolo più importante negli altri due, soprattutto nell'Intermezzo, che viene commentato inanellando una serie di baci appassionati tratti da Le Quai des brumes (Il porto delle nebbie) di Marcel Carné, del 1938, col bacio fra Jean Gabin e Michèle Morgan, da La Bête humaine (L'angelo del male) di Jean Renoir, anch'esso del 1938, e da Manon di Henri-George Clouzot, del 1949, che ambienta la vicenda nel secondo dopoguerra.
Il primo atto sfrutta il bancone del bar già usato per la Manon di Massenet; la scala di legno sulla sinistra ne ricorda una analoga nel salone di Minnie della Fanciulla di Carrasco, allestito anche in quel caso come il set di un film; la scena è un brulicare molto ben riuscito di coristi e comparse, che entrano dopo che Edmondo, a inizio opera, lacera un tramezzo di carta e proietta in medias res il pubblico nell'andirivieni nei pressi della diligenza. Sul davanti, un opportuno tavolino e un mobile rendono agevole seguire i dialoghi fra Geronte e Lescaut, il duetto degli amanti e Donna non vidi mai di Des Grieux. Più interessante, il secondo atto sposta l'azione in un algido salone del palazzo di Geronte, a tinte chiare, d'un azzurro-grigio ceruleo a fregi bianchi, reso spaesante dal ricorso a pochi oggetti di scena e a grandi spazi vuoti. L'omaggio agli anni Trenta è reso anche dai Musici che, nel cantare il madrigale vestono frac e cilindro, alla Marlene Dietrich, con le quattro vocalist dietro la chanteuse a schioccare le dita a tempo. Ottimi tra l'altro i costumi degli invitati, a tema con l'eleganza del contesto, e in contrasto con l'abito a quadri di Manon, come se lei continuasse a rimanere estranea a quell'ambiente. Il gran lusso permette a Geronte ad avere il cinema in casa: si potrebbe intendere così la proiezione sulla parete del mimo Baptiste, tratto da Les Enfantes du paradis (Amanti perduti), ancora di Marcel Carné, del 1945. Di questo film, la protagonista, Arletty, al secolo Léonie Bathiat, presta il viso alla Manon del progetto, come Dolores Costello era la Manon di Auber e Brigitte Bardot quella di Massenet. Lo stesso mimo Baptiste compare poi fisicamente sul palcoscenico, quasi a indicare a Manon il suo ruolo di muette, in questo caso non di… Portici ma di un ricco signore che la vuole con sé non certo per le sue doti d'eloquenza; e il Pierrot che le gira attorno potrebbe farsi incarnazione di quella malinconia di cui Manon è portatrice fin dalla sua entrata in scena, come fa notare il dotto approfondimento di Giangiorgio Satragni nel programma di sala. Dell'Intermezzo s'è già detto; l'atto terzo, al porto di Le Havre, sprofonda in ombre cupe, minacciose, dominate dalla grande scritta EMBARQUEMENT divisa su due pannelli sullo sfondo. Manon è arrestata non solo per il furto di gioielli, ma per l'omicidio di Geronte: anche qui Bernard sceglie come già nello spettacolo di Massenet una connotazione più dark per Manon, rendendola omicida; cosa che, se in Massenet poteva servire per giustificare il parallelismo con La verité, qui appare un po' eccessiva. Secondo e terzo atto recuperano parte del “finto realismo” della regia per Auber, ammassando ai lati del salone di Geronte riflettori e attrezzeria scenica e facendo intervenire i tecnici in tuta su una scala per riparare un neon che sfarfalla (nel terzo). La commistione col cinema si recupera maggiormente infine nel quarto, con un fondale in bianco e nero di sabbie e dune e una pedana grigia rialzata.
Viste al contrario, invece, nell'ordine in cui sono state presentate in questo mini-festival, le recite di Puccini-Massenet-Auber vengono ad assumere contorni sempre più cinematografici man mano che tornano à rebours nel tempo. Per questo, si diceva, alla fine della recita di Auber compaiono in scena le tre gigantografie delle attrici-Manon: come a riassumerne il percorso. L'operazione di iniziare con la Manon Lescaut di Puccini ha avuto sicuramente del commerciale, trattandosi del titolo più famoso e di quello che ha fatto registrare il maggior numero di ingressi. Un teatro mezzo vuoto per Auber e appena più pieno per Massenet, e al cui riempimento hanno contribuito i partecipanti del meeting di Opera Europa, non è un bel segnale per il Teatro e non è un bel biglietto da visita per i torinesi, che hanno ancora una volta dimostrato l'aderenza al detto “non conosco quindi non vado”: prova di poca curiosità e di poca vivacità intellettuale.
Con la Manon Lescaut di Puccini il rischio non c'è stato, e per questo titolo il Regio ha deciso di puntare su un cast di sicura presa e indubbio valore. Da questo punto di vista esce vincente Erika Grimaldi sul piano di un professionismo sicuro, che si basa su esperienza, tecnica, strumento luminoso e lirico, in grado di dominare gli acuti senza problemi – a volte fin troppo, perché alcuni acuti vengono lanciati, negli assiemi, senza tener conto dell'equilibrio generale della scena. Si può obiettare in qualche caso una certa mancanza di partecipazione, che rende un po' fredde In quelle trine morbide e Sola… perduta, risolte con puntualità ma senza la morbidezza del “canto di conversazione” che fa di tante pagine pucciniane la loro anima, a metà fra l'aria solistica e il pezzo integrato al dialogo. Convince però, restando sulle Trine, il fluido passaggio dalla Scena all'Aria, senza l'artificioso distacco delle due parti. Buona la prova del Des Grieux di Roberto Aronica, di voce spessa e presente ma che frequentemente, forse per ovviare a certi problemi di emissione su un diaframma non molto saldo, appiattisce i colori su un forte e un mezzoforte poco variabile, dando un'interpretazione che verte sull'espressionistico. Si addolcisce un po' in Donna non vidi mai e nel duetto finale al quarto atto, senza però davvero eliminare certe rigidezze di fondo; è per questo che convince di più nel secondo e nel terzo atto, quando scene, canto e parole fanno emergere maggiormente la mascolinità del personaggio. Inappuntabile invece la prova del Geronte di Carlo Lepore, sia vocalmente, grazie a una voce scura e… sicura, ben impostata ed espressiva, sia grazie a movimenti scenici credibili. Scaltrito e spiccio il Lescaut di Alessandro Luongo – che in Puccini torna ad essere, come nell'originale di Prévost, il fratello e non più il cugino di Manon, come nelle altre due opere – grazie a una recitazione naturale e una bella voce robusta, fluente e levigata. Bene anche per i ruoli minori: Didier Pieri è un ottimo Lampionaio e Maestro di ballo, Reut Ventorero un Musico aggraziato (notare la finezza di Puccini che qui recupera l'uso del cantante en travesti tipico del Settecento), ben coadiuvato dai Madrigalisti Pierina Trivero, Manuela Giacomini, Giulia Medicina e Daniela Valdenassi. Lorenzo Battagion, membro stabile del Coro del Regio che qui, istruito da Ulisse Trabacchin, si riconferma garanzia di espressività, dà vita a un Comandante di marina timbrato e tetragono, dalla giusta burberità. Nota di merito a Janusz Nosek, artista del Regio Ensemble, per aver interpretato il duplice ruolo del Sergente degli arcieri e dell'Oste.
Dotato di buon fraseggio e voce squillante e luminosa, sebbene un po' piccola, Giuseppe Infantino quale Edmondo è penalizzato dalla direzione di Renato Palumbo, il quale si trova a guidare una compagine giustamente blasonata, l'Orchestra del Regio, ma fatica a trovare qui il dialogo migliore con essa, almeno all'inizio. Il primo atto soffre infatti di una vigoria eccessiva, che ingloba le voci senza dar loro il giusto risalto. Da questo punto di vista anche il coro pare non ben a fuoco. Le cose migliorano col secondo, dove si apprezza un miglior equilibrio buca-palcoscenico, e si assestano negli ultimi due, in cui il piglio drammatico e la tenuta generale sembrano meglio attagliarsi a musica e drammaturgia. Dotata di un buon scavo della partitura, la sua lettura rifugge da decadentismi eccessivi o da melensi languori, senza per questo irrigidirsi in una maschera inespressiva, anzi, dando il giusto rilievo agli squarci sinfonici – primo fra tutti l'Intermezzo, ma anche i raccordi del quarto atto derivati da quel Crisantemi del 1890 che Puccini ricicla qui per le battute finali del dramma – e badando a cesellare con buona sensualità gli interventi di Manon al primo e secondo atto.
Il pubblico dimostra di gradire omaggiando anche in questo caso di fiori, oltre che di applausi, solisti e direttore. Il viaggio delle tre Manon finisce qui per chi scrive, mentre da qui è iniziato per chi ha seguito le prime. Non finisce qui invece per Manon, che dopo Puccini torna a calcare le scene nel quarto adattamento teatral-musicale, quello di Hans Werner Henze e del suo Boulevard Solitude del 1952: ma questa è un'altra storia.
Christian Speranza
31/10/2024
Le foto del servizio sono di Simone Borrasi.
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