RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Manon Bardot a giudizio

Dal 2019 la data del 25 ottobre è stata scelta per festeggiare il World Opera Day: la Giornata Mondiale dell'Opera. E, sebbene in realtà non sia necessaria una “giornata mondiale” per celebrare qualcosa che si ama alla follia, così come sarebbe ipocrita manifestare il proprio amore a qualcuno solo il giorno del suo compleanno, Opera Europa ha scelto il compleanno di Geoges Bizet e di Johann Strauss figlio per festeggiare questa secolare manifestazione di incontro d'arti. Per il 2024 i membri dell'associazione, di cui fanno parte oltre duecento teatri e festival di oltre quaranta Paesi, partecipa a un convegno-conferenza che ha nel Teatro Regio di Torino il suo centro nevralgico. Le date del 24, 25 e 26 ottobre concentrano così in una full immersion sia i tre spettacoli della rassegna Manon Manon Manon, per la prima e unica volta nel mese in ordine cronologico (24: Auber, 1856; 25: Massenet, 1884; 26: Puccini, 1893), sia la loro diretta su Rai 5, leggermente differita, sia un evento culturale di proporzioni internazionali. Una tre-giorni in crescendo per quanto riguarda la popolarità delle opere proposte, che però vede nella data del 25, di cui si riferisce, una curiosa coincidenza.

La Manon di Jules Massenet, su libretto di Henri Meilhac e Philippe Gille, venne data in prima assoluta all'Opéra-Comique di Parigi il 19 gennaio 1884: perché di fatto, di opéra comique si tratta, dato che ad interventi cantati si alternano parti recitate. Ma la divisione non è così netta – sovente al di sotto dei dialoghi parlati si ode un commento orchestrale ininterrotto, cosa che la avvicina all'opera vera e propria – e soprattutto non è solo su questa caratteristica che si basa la classificazione di opéra comique che alla Manon di Massenet, diciamolo, va un po' stretta: anzi tutto, per le dimensioni, cinque atti e sei quadri, con tanto di balletto al centro del lunghissimo terzo atto, cose che, se ci fosse anche una componente storica un po' più marcata, la farebbe entrare di diritto nel genere grand opéra; secondo ma non meno importante, per il carattere dei personaggi. A parte Des Grieux, che per dimenticare Manon entra in convento, come il Don Alvaro di Verdi, a cambiare radicalmente qui, rispetto alla versione Auber, è l'approccio di Manon alla vita e ai piaceri, più fedele allo spirito del romanzo di Prévost: un atteggiamento che è stato possibile proporre alla borghesissima, benpensante e un filino bigotta Salle Favart degli anni Ottanta solo grazie a quell'opera di rottura che è stata la Carmen di Bizet (1875), col suo scardinamento dell'etica del teatro musicale. Ed ecco che quindi assistere alla Manon di Massenet nel giorno del compleanno di Bizet sembra sapere di congiunzione astral-operistica.

Tale approccio viene colto anche dal regista Arnaud Bernard, qui col collaboratore Stephen Taylor, che continuando la sua linea interpretativa si rivolge al cinema francese degli anni Sessanta. E chi meglio di Brigitte Bardot poteva incarnare l'ideale di libertà e di emancipazione femminile, chi se non un'icona sexy dalla tumultuosa vita privata, sovente sulle copertine dei rotocalchi scandalistici, chi se non B.B.? La scelta pare azzeccata non solo per il connubio tra opera e personaggio, ma anche per quello tra opera e film. Perché, se per la regia della Manon Lescaut di Auber, Bernard effettua un collegamento fra la prima versione operistica e la prima versione cinematografica del romanzo (When a man loves del 1927), riproducendo un vero e proprio set, per la Manon di Massenet impernia la narrazione su La verité, del 1960, di Henri-Georges Clouzot, in cui Dominique Marceau, interpretata proprio da B.B. e sulla cui onestà morale pesa più di un sospetto, viene accusata di omicidio dell'ex fidanzato. Gli spezzoni, utilizzati da Bernard per introdurre ciascun atto e a cura di Marcello Alongi, sono tratti dalle scene che si svolgono in tribunale; ed è proprio una grande aula di tribunale ad essere riprodotta sul palcoscenico del Regio, con sullo sfondo la corte dei giudici che permane lungo tutta l'opera e, nell'agone, le suggestive scene di Alessandro Camera, tutte giocate, ça va sans dire, sul bianco e nero e lumeggiate da Fiammetta Baldiserri, dove solisti, coristi e comparse sono fatti muovere con frequente ma non eccessivo ricorso al freezing: un lungo bancone di un bar per la scena di Amiens, con riferimento al cortile della locanda del libretto; l'appartamento di Manon e Des Grieux a Parigi – letto, paravento, due lampade e la petite table del cantabile più famoso dell'opera; una passerella per sfilate e vetrine con abiti in luogo del Cours-la-Reine, dove Manon ammira i vestiti all'ultima moda – gli eleganti, sontuosi e curatissimi costumi di Carla Ricotti che si rifanno al New Look di Christian Dior –; confessionali in ombra e banchi di chiesa per la scena di Saint-Sulpice; il suddetto bancone più svariati altri tavoli per l'hotel di Transilvania; infine, un semplice letto sanitario, isolato in mezzo al palcoscenico vuoto e scuro al posto della strada per Le Havre, uno dei due punti in cui Bernard si discosta davvero da Massenet, come Massenet si discosta da Prévost, abolendo il quadro in Louisiana. Tenendo conto poi del fatto che nel film la protagonista è accusata di omicidio e che al quarto atto qui Manon uccide Guillot con due colpi di revolver (l'altro grande punto di distacco), si ottiene un'analogia quasi completa tra opera e film, come se l'opera facesse vedere ciò che è accaduto all'esterno del tribunale e spiegasse perché, in una storia parallela, “Manon Bardot” è citata in giudizio. L'opera dentro il film, il film dentro l'opera. Nel complesso una regia che, pur prendendosi qualche libertà, risulta ancora coerente con l'opera e con se stessa, soprattutto se considerata inserita nel progetto più vasto delle tre Manon. Alcune punte di gratuito osé, tuttavia, come Guillot che, sulle parole «Inforco Pegaso anch'io talvolta», “inforca” (letteralmente …) Manon su un tavolo, sono sembrate francamente fuori luogo. È pur vero, però, che questo dettaglio, come l'accusa di essere un baro a Des Grieux, contribuisce a delineare il carattere viscido di Guillot, che spinge Manon a ucciderlo.

Un'analogia che in generale funziona e convince, perché sostanzialmente non tradisce lo spirito dell'opera ma lo pone in un dialogo intelligente, anche se un po' al limite, con un'altra arte performativa. È chiaro però, che, per i normali tempi di rappresentazione moderni, sarebbe stato impensabile riproporre la Manon tutta intera, un po' com'è accaduto per La Juive un anno fa (e chissà che segretamente il Regio non abbia intrapreso la strada di proporre una grand opéra all'anno: sarebbe un'idea…). Per questo Evelino Pidò, che torna su questo podio dopo la Fille donizettiana della stagione scorsa, ricorre ad alcuni tagli, eliminando le scene di genere, soprattutto nel primo atto, e il balletto nel terzo; soppressione che, essendo stato il balletto offerto da Guillot per impressionare Manon, rende un po' fuori luogo le battute: «Je n'ai rien vu!… – voilà le prix de ma galanterie!». La sua direzione, ad ogni modo, si orienta su un gusto molto vitalistico, che ha innervato la partitura di un'esuberanza di suono robusta, a tratti persino troppo marcata nel lato percussivo, benché abbia poi raddolcito i contorni nei punti opportuni, concertando così alla pari con le voci – sbozzato con attenzione, ad esempio, il lungo duetto tra Manon e Des Grieux a Saint Sulpice – e arrivando a far suonare l'orchestra a livello di murmure, al di sotto dei dialoghi parlati, in un prodigioso pianissimo. Va riconosciuto ancora una volta il valore dell'Orchestra del Regio, così come del Coro, istruito da Ulisse Trabacchin. A queste due compagini si riconosca oltretutto il merito di star suonando, in questo impegnativo ottobre, tre opere diverse con tre direttori diversi: una duttilità e una tenuta davvero rare e ammirevoli.

Anche il cast si attesta su un valor medio di pregio. Protagonista indiscussa è lei, Ekaterina Bakanova, che grazie anche a trucco e parrucco riesce a richiamare efficacemente i tratti di B.B. La sua Manon si distingue per una recitazione realistica, molto drammatica, distante da quella caricaturata voluta da Bernard per la versione di Auber, e per una voce piena, corposa e lucente, portata al lirismo e in grado di tratteggiare bene i molteplici stati d'animo del suo personaggio. Basterebbero Adieu, notre petite table per il canto e il suo gridato «Mon pauvre chevalier!» a fine atto secondo nella recitazione per riassumere la poliedricità di cui dispone. Je marche sur tous les chemins, poi, coniuga ossimoricamente nella sua gola la solidità e la leggerezza di acuti limpidi e ben fatti. Impressioni positive anche per il Des Grieux di Atalla Ayan, tenore che si distingue per un buon volume, voce pastosa e, come per Bakanova, anche qui lirica e intensa, dai centri ben fatti ma con qualche difficoltà in acuto, cui sopperisce un'ampia tavolozza di colori. Fra i vari culmini non si può non ricordare la toccante interpretazione di En fermant les yeux je vois. Ruolo breve ma fondamentale, il padre di Des Grieux è qui un solido Roberto Scandiuzzi, che convince per interpretazione immedesimata e strumento profondo, caldo, timbrato, a suo agio in tutti i registri. Voce arrotondata, volume adeguato e buone doti attoriali caratterizzano il cugino di Manon, il Lescaut di Björn Bürger, dall'emissione sempre fluida e presente, come in Ô Rosalinde a inizio atto terzo.

I personaggi secondari sono davvero troppi per potersi soffermare a dovere su ciascuno. Ci si limiti a notare il Guillot de Morfontaine di Thomas Morris, tenore di voce piccola, leggera e petulante, che nel tratteggiare il nobile sempre piccato in amore e in fortuna scade un po' nel macchiettistico (si ignora però se sia intenzione o meno del regista), il Monsieur de Brétigny di Allen Boxer, forse un po' rigido sul palco ma di voce salda e pregevole, L'Oste di Ugo Rabec, il trio di amiche di Manon, Poussette (Olivia Doray), Javotte (Marie Kalinine) e Rosette (Lilia Istratii), nell'insieme ben affiatate ma non valutabili singolarmente, Una Guardia di Alejandro Escobar, Un'Altra Guardia di Leopoldo Lo Sciuto e la Commerciante di Junghye Lee. A questi si aggiungono altri interpreti chiamati a impersonare più ruoli: Roberto Miani (Un Mercante, Il Portiere di Saint Sulpice e Una Voce), Giovanni Castagliuolo (Monsieur de Elixir, Un Giocatore e Primo Giocatore), Franco Rizzo (Monsieur de Chansons e Secondo Giocatore) e Andrea Goglio (Cuciniere, Voce fuori campo, Un giocatore).

La recita si conclude con applausi scroscianti e prolungati, accompagnati da lanci di fiori dalle prime file della platea.

Christian Speranza

31/10/2024

Le foto del servizio sono di Mattia Gaido&Simone Borrasi.