UN DEVEREUX – POP
Al giorno d'oggi può sembrare fuori luogo l'aggettivo “pop” – sia pure usato in senso lato – a proposito di un genere musicale come l'opera lirica, ritenuta, a torto o a ragione, una passione di nicchia. E, ancor più, può sembrare fuori luogo se si parla di Roberto Devereux, titolo che è tra i più affascinanti del catalogo donizettiano, ma, nell'Italia in cui sembra che la gente voglia ascoltare sempre e soltanto le stesse opere note, fatica ad entrare nel repertorio più frequentato. Tuttavia, chi ha assistito alla recita della «tragedia lirica» domenica 20 marzo al Teatro Carlo Felice di Genova ha potuto sentire, in una platea pressoché sold out, un delirio di applausi e di acclamazioni entusiastiche indirizzate, da un pubblico di tutte le età, ai protagonisti dell'opera. Allora, il melodramma è davvero solo un passatempo d'élite per intellettuali annoiati e danarosi? E Roberto Devereux non merita d'essere fatto conoscere a tanti melomani che non hanno ancora avuto la possibilità d'ascoltarlo? O, forse, il teatro d'opera in generale, e questo titolo in particolare, possiedono anche oggi una vocazione “pop”? Se poi si sta parlando delle recite genovesi di marzo, “Pop” diventa anche un nome: Stefan Pop è infatti il tenore romeno che ha impersonato il ruolo titolare di Roberto. Di carriera rapida e recente, egli si è presentato in scena con qualche incertezza ma ha presto mostrato un ottimo squillo che, associato a una bella linea di canto legato, lo rende interprete ideale per i ruoli donizettiani da tenore lirico. Gli si consiglierà studiare con più cura la parte, onde evitare di sbagliare il testo o l'ingresso in un momento focale – difetto da cui non sono stati esenti altri interpreti, mentre la proiezione dei soprattitoli si ostinava a non ingranare la marcia giusta: un vero peccato, in un melodramma nel quale versi e musica si sposano con una perfezione raramente eguagliata –, per valorizzare le proprie doti naturali, esplicatesi in specie nella grande aria del III atto: aperta da un recitativo ben fraseggiato, essa è proseguita con una strofa in cui la morbidezza della melodia cantabile non era mai priva di accento espressivo e si è conclusa con una cabaletta di cui si apprezzava in particolare la ripetizione, rallentata e arricchita di piccole variazioni, a fronte di una prima esposizione forse un po' troppo baldanzosa. Se Roberto è rôle-titre, vera protagonista dell'opera è la regina Elisabetta I, incarnata da una delle regine viventi del belcanto, il soprano Mariella Devia, per la quale il pubblico genovese va in giusto delirio. Prossima per età all'Elisabetta rappresentata da Donizetti in questo titolo, la Devia, con lo strumento pressoché immacolato e la scaltrezza tecnica acquisita in lunghi anni di esperienza, è perfetta per dar voce a una regina che, pur anziana, vive con ardore e volizione le passioni tipiche della giovinezza. Qualche venatura tagliente nel registro acuto giova ad esprimere la determinazione e il carattere forte della sovrana inglese, che tuttavia non manca di abbandonarsi al sogno dei propri affetti con una delicata emissione a fior di labbro, nell'aria del I atto. L'abilità nel passare ora alla mezza voce, ora al quasi parlato, e il fraseggio sempre perspicuo scolpiscono una figura a tutto tondo che raggiunge il vertice nella lunga e complessa aria conclusiva – coronata da una puntatura (unica concessa nella serata) al re naturale –, perfetta immagine della dimensione di astrazione dalla realtà in cui Elisabetta si trova. Il mezzosoprano Sonia Ganassi, dopo un impercettibile inciampo nella romanza d'esordio, ha saputo esprimere con voce sontuosa ed eccellente sicurezza la passione travolgente e invano repressa di Sara, duchessa di Nottingham e rivale della regina. Il duca di Nottingham era impersonato dal baritono Mansoo Kim, cui non mancano certo potenza e volume, che sfoggia con proprietà in quei passi più violentemente brutali come il finale II e la cabaletta del duetto con Sara; altrove merita che raffini la pasta della voce e lavori sul fraseggio, rimasto un po' abbozzato, per comunicare meglio il pathos del personaggio. Se, insomma, sul fronte femminile erano impegnate due superbe professioniste in piena maturità, sul fronte maschile si sono ascoltate due voci giovani molto promettenti che, vuoi per la minore esperienza, vuoi per l'origine straniera, hanno davanti a sé un percorso di affinamento che, affrontato nella giusta maniera, non mancherà di dare ottimi risultati. Per ciò che concerne le seconde parti, merita menzione il basso-baritono Claudio Ottino, di sicura presenza vocale e perspicuo nel ruolo di Gualtiero.
La direzione musicale dell'opera è stata affidata a Francesco Lanzillotta, una delle giovani bacchette di scuola italiana, il quale ha svolto con attenzione il proprio compito, anche se non si ravvisa ancora in lui una spiccata personalità quale, nel bene o nel male, emerge in alcuni suoi coetanei colleghi. Quando si è trattato di accompagnare il canto, e in particolare la regina protagonista, tutto ha funzionato alla perfezione; altrove, e segnatamente nella sinfonia, un andamento travolgente non ha avuto pienamente riscontro in un risultato serrato: forse avrebbe premiato la scelta di un maggiore respiro. Un po' di compattezza è mancata qua e là ad Orchestra e Coro, dei quali, beninteso, non si vuole assolutamente mettere in dubbio la professionalità. La componente visiva è stata affidata alle cure del baritono Alfonso Antoniozzi, che da qualche tempo si dedica anche alla regia. Lo spettacolo, a parte la presenza di un buffone di corte e di alcune comparse in maschera che si aggirano per la scena, il cui significato recondito resta da indagare – ma li si poteva benissimo prendere come figure decorative –, si muove nel solco della regia tradizionale, esaltata dai costumi storici di Gianluca Falaschi. Un colpo di scena assai riuscito è la scelta di far comparire Elisabetta, nell'ultima scena, priva di trucco e parrucca, che si mostra finalmente per quello che è: un'anziana fragile e insicura, sopraffatta dai propri fantasmi. Le luci, di Luciano Novelli, con la loro parsimonia sottolineano le tinte scure del dramma e l'ambiente ombroso della corte. Meno tradizionali le scenografie – che sempre rappresentano o evocano ambienti di reclusione –, nelle quali elementi decorativi tardogotici sono affiancati, con gusto postmoderno, ad alcuni dettagli essenziali o addirittura metateatrali, come la scelta di mostrare le macchine di scena. E, a dire il vero, i bozzetti di Monica Manganelli riprodotti sul programma di sala lasciano intravedere una concezione più audace, che probabilmente è stata rettificata alla luce della saggia considerazione che, quando si rappresenta l'ambiente pensato dal compositore, non si sbaglia mai.
Marco Leo
1/4/2016
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