RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Roberto Devereux

al Teatro Regio di Parma

Strano ma vero, Roberto Devereux, opera in tre atti di Gaetano Donizetti su libretto di Salvatore Cammarano, il quale lo trasse dalla tragedia Elisabeth d'Angleterre di Jacques François Ancelot, al Teatro Regio fu rappresentata una sola volta nel 1840. Pertanto la proposta attuale riveste carattere di recupero di un titolo, il quale è ormai di repertorio, oltre a un omaggio di carriera per la protagonista.

L'opera, che fa parte della cosiddetta Trilogia Tudor, fu rappresentata in prima al Teatro San Carlo di Napoli il 28 ottobre 1837 durante un periodo drammatico per Donizetti, che poco prima aveva perso moglie e uno dei figli. La vicenda non si basa su fatti reali, anche se pare Elisabetta I avesse un debole per il Conte d'Essex e gli altri personaggi sono realmente esistiti, trattasi di fonti romanzate anche per esigenze di sviluppo teatrale. Oggi è prassi eseguire l'Ouverture, che fu composta l'anno successivo per la prima al Théâtre des Italien di Parigi. Devereux contraddistingue un passo superiore nella complessa evoluzione artistica del compositore il quale, pur riproponendo le oscure suggestioni di una corte, offre ai personaggi un temperamento drammatico più rilevante e anche un contrasto spirituale. Spicca il personaggio di Elisabetta cui Donizetti dona una tinta tragica e risoluta corrispondente a una vocalità virtuosistica, ostica e dolente, ruolo dominato dalla gelosia e dalla brama di vendetta. Il titolo dell'opera avrebbe dovuto essere Elisabetta ma Donizetti per rispetto a Rossini, il quale aveva già composto un'opera con lo stesso titolo, decise diversamente.

Lo spettacolo con regia di Alfonso Antoniozzi, scene di Monica Manganelli e costumi di Gianluca Falaschi, fu creato al Teatro Carlo Felice di Genova nel 2016 per Mariella Devia, protagonista anche a Parma. L'idea essenziale è lineare ed efficace: il potere, qui forse rappresentato da una maschera, predomina sulla vita reale in maniera subdola e cinica. Tutto si svolge con imperioso segno reale, entrate e uscite sono contraddistinte da severe forme geometriche, ma il privato dei sentimenti è reso con passionale drammaticità teatrale. Le scene semplici ma di forte impronta rendono bene l'austero ambiente della corte elisabettiana. Magnifici i costumi, pomposi ma allo stesso tempo con precisi riferimenti storici, il coro tutto in nero e i solisti contraddistinti dal cromatismo. Infine, ma non secondario, il bellissimo disegno luci di Luciano Novelli, cupo e sinistro. Alcune cose non erano chiarissime, come ad esempio la presenza assidua di un giullare in scena, il quale potrebbe avere numerosi significati, e ci sarebbe da chiedersi perché oggigiorno sia così difficile ascoltare una sinfonia a sipario chiuso. In seguito nel II atto è poco chiaro il costume di Elisabetta con lungo strascico sul quale sono disegnati confini geografici come a significare il vasto regno. Tale pseudo mantello è appeso a delle funi e alzato per una visione completa per il pubblico. Tuttavia nel ‘500 il regno che vantava espansioni territoriali cospicue era la Spagna, l'Inghilterra lo fu qualche secolo più tardi. Il miglior momento è il finale, la regina ormai stanca e delusa è spoglia dei fastosi paramenti, sola nelle sue stanze indossa una semplice camicia da notte, i capelli (bianchi) sono sciolti e si arrende a un destino crudele ormai inesorabile, la forza drammatica della scena è imponente.

Purtroppo in quest'occasione dobbiamo registrare la prova non positiva dell'Orchestra dell'Opera Italiana, sovente sfasata e poco precisa soprattutto nel settore degli ottoni. Non è servita la presenza sul podio di Sebastiano Rolli, che ha eseguito la partitura integralmente, a sollevare le sorti di resa musicale che sarebbe potuta essere migliore, anche se è doveroso rilevare che il direttore ha dovuto seguire particolare esigenze dei cantanti. Una prova splendente, invece, quella del Coro del Teatro Regio istruito da Martino Faggiani.

L'interesse principale di questa produzione era la presenza di Mariella Devia nel ruolo di Elisabetta I, personaggio aggiunto nella parte finale della carriera, la quale, secondo voci di corridoio, pare terminerà a breve dopo le prossime recite di Norma al Teatro La Fenice. È opinabile che nel caso di Parma si tratti di un omaggio alla cantante, che qualora si fosse dimenticato è stata una delle più importanti negli ultimi quarant'anni.

Roberto Devereux, assieme ad altre opere eseguite negli ultimi tempi, certamente non è opera per le corde di Mariella Devia. La scrittura è pesante, il tono drammatico incisivo, e l'accento deve avere una rilevanza sostanziale. Qualità che la cantante non ha in genere mai posseduto, eccellendo in maniera straordinaria in altri repertori. Considero pertanto questi ultimi debutti come dei “péchés de vieillesse” legittimi e che non scalfiscono la grande artista. Tuttavia è altrettanto doveroso considerare il grande sforzo della cantante per rendere credibile il personaggio, ma è una prova riuscita a metà. La voce, considerando età e lunga carriera, è ancora quasi miracolosamente integra, anche se più corta e piccola, ma lo stile e la tecnica sono sempre superiori. Questo le permette un canto ancora intonato, preciso, stilizzato e di riferimento quasi sbalorditivo considerato come cantano le sue coetanee ancora in carriera, ma troppo limitato per la parte di Elisabetta che la mette sovente a disagio nelle parti concitate, finale atto II, cabaletta atto III e nei recitativi, più favorevole la prova nei passi più elegiaci. Comunque siamo di fronte ad una grande cantante, che è e resterà un punto di riferimento nella storia del melodramma. Se poi ha voluto nel finale togliersi qualche sfizio, questo è legittimo e non scalfisce l'artista.

Buona prova di Stefan Pop, Roberto, un tenore che conferma una voce bella e abbastanza duttile, anche se non sono mancati momenti d'incertezza che sono stati in seguito riscattati dalla bella esecuzione della difficilissima aria del III atto. Sonia Ganassi, Sara, disegna un personaggio molto appassionato ma la voce svetta solo nel settore acuto, il centro è appannato, pur apprezzando la veemenza dell'interprete e un rilevante fraseggio. Sergio Vitale, Nottingham, è baritono poco efficace, dovendo affrontare un ruolo oltre il limite delle sue possibilità sia per tecnica sia per voce per nulla educata.

Si mettono in luce, nei brevi interventi, il brillante Matteo Mezzaro, Lord Cecil, e Ugo Guagliardo, incisivo Sir Gualtiero. Professionali e precisi anche Andrea Goglio, un paggio, e Daniele Cusari, familiare di Nottingham.

Successo trionfale al termine, con numerose chiamate e ovazioni per la signora Devia.

Lukas Franceschini

3/4/2018

Le foto del servizio sono di Roberto Ricci-Teatro Regio di Parma.