Roberto Devereux al Comunale di Firenze
E con questa esecuzione di Roberto Devereux Mariella Devia ha concluso la propria presentazione della cosiddetta “trilogia Tudor” donizettiana a Firenze, dopo l'Anna Bolena del 2012 e la Maria Stuarda dello scorso anno; inoltre, sempre a Firenze ne aveva dato un assaggio nel 2011 cantando i tre finali. Persino il suo ammiratore più fervido, ed io mi ritengo tale da almeno trent'anni, dovrà ammettere che la voce essenzialmente lirico leggera della Devia non sia proprio nata per alcuni ruoli che ha affrontato di recente, e il Devereux è fra questi, ma nonostante tutto la somma cantante è sempre in controllo del ruolo. Se la purità timbrica e la tecnica immacolata sono ormai scontate, non altrettanto poteva dirsi dell'impeto drammatico vocale, dato che la somma belcantista è stata accusata, e non senza ragione, di essere una interprete troppo compassata. Già negli ultimi anni la Devia era divenuta interprete più partecipe, e qui, nonostante i limiti imposti dalla forma concertante, il soprano ligure è riuscito a trasmettere in pieno il carattere di Elisabetta I in un crescendo di passione e furia, speranza, estrema delusione e redenzione finale. Da un punto di vista meramente vocale, vi sono rarissimi precedenti di una cantante che dopo quarant'anni di carriera al vertice mantiene ancora uno strumento freschissimo, con il suono sempre appoggiato e immascherato, e un controllo dei fiati sbalorditivo. I passi più deboli erano, come prevedibile, quelli che si aggirano nell'estremo registro grave, anche se il temibilissimo intervallo di due ottave (dal Do 5 al Do 3) sulla frase “dal tremendo ottavo Enrico”) è risultato riuscitissimo e con intonazione perfetta. Per dovere di cronaca, la Devia non ha terminato alcun pezzo chiuso con la classica, ancorché scarsamente filologica, puntatura all'ottava superiore.
Celso Albelo nel ruolo eponimo ha dimostrato ancora una volta le sue credenziali belcantistiche, con una tecnica da manuale, un passaggio di registro risolto in modo esemplare e un'emissione vocali molto anteriore. Questo ruolo, contrariamente a quelli da lui più frequentati, non sollecita moltissimo il registro acuto, ma Albelo ha trovato comunque il modo di sfoggiare un bellissimo re sovracuto con una puntatura alla fine della sua cabaletta. L'unico appunto che si possa muovere ad Albelo è quello di imitare un po' troppo il suo concittadino canario Alfredo Kraus, soprattutto il vezzo di iniziare quasi ogni frase con una vocale nasaleggiante.
Confesso di aver temuto il peggio nell'apprendere che Gabriele Viviani indisposto sarebbe stato sostituito da Paolo Gavanelli, che non ascoltavo dal 2006 in quasi disastroso Rigoletto al Met di New York. Invece ho trovato un cantante vocalmente risanato, con un registro acuto nuovamente affidabile e potente, centri scuri e risonanti, e sicurissimo anche da un punto di vista musicale.
Chiara Amarù ,un giovane mezzosoprano che sta facendosi strada soprattutto grazie alle sue interpretazioni rossiniane, ha in realtà il timbro di un soprano lirico, piacevole e ben emesso ma carente di quel velluto scuro proprio di un autentico mezzosoprano. Perché un tenore dal timbro schietto e virile come Antonio Corianò (Lord Cecil) continui ad esser confinato in ruoli da comprimario è uno dei molti misteri del mondo dell'opera.
Positiva la prova del direttore Paolo Arrivabene il quale, ben consapevole che questa è un'opera che si sviluppa per scontri, ha sottolineatol'importanza dei pezzi di insieme, limitando certe tendenze protagonistiche dei solisti, e riuscendo così a dare unità all'esecuzione.
Nicola Lischi
29/5/2014
|