Ricercando l'armonia
L'Hindemith “kepleriano” torna a Linz
Accanto a Guglielmo Tell e Falstaff ci si dovrà decidere, prima o poi, a inserire tra i massimi finali “polifonici” del teatro d'opera pure la passacaglia a otto voci – plasticissima e d'irresistibile tensione emotiva – che chiude Die Harmonie der Welt. Così come sarebbe il caso di ricollocare questo tardo capolavoro di Hindemith (1957) nel posto che gli spetta, accanto ai massimi capisaldi operistici del Novecento: rimodulando una graduatoria che dovrebbe retrocedere invece al rango di modernariato (e neppure dei più godibili) altre partiture fino a ieri intoccabili. Innovatore e passatista, satirico e spirituale, l'autore di Mathis der Maler resta un insomma un compositore in credito con la Storia, com'è nel destino dei talenti ossimorici e fuori format. E per questo suo quasi testamentario lascito operistico (seguirà ancora – auspice Thornton Wilder – Il lungo pranzo di Natale: un rapido atto unico che si direbbe una sorta di excusatio per le vaste campate impresse al lavoro precedente) volle fare i conti con un personaggio certo gigantesco, ma forse teatralmente poco accattivante, come Johannes Kepler.
Costruire una drammaturgia attorno alle leggi kepleriane sul moto dei pianeti, trasferendo in musica la dialettica scientifico-metafisica che impregna l'Harmonices mundi dell'astronomo tedesco, era una scommessa titanica: il mero successo di stima che arrise al debutto di Monaco, e l'esito modesto seguito a una revisione postuma e oltremodo sforbiciata, sancì il luogo comune del fallimento di Die Harmonie der Welt. Ancora una volta, Hindemith ebbe il torto di essere in anticipo sui tempi: nei decenni a venire il teatro d'opera si sarebbe impadronito dei grandi scienziati e da Philip Glass, Poul Ruders, John Adams, Giorgio Battistelli sarebbero arrivati (ma con un pensiero musicale meno forte di quello hindemithiano) ritratti operistici di Galileo e Tycho Brahe, di Oppenheimer e ancora di Keplero. Quanto alla supposta pletoricità dell'impianto, si tratta di due ore e tre quarti di musica che scorrono senza stanchezza se affidati a un'ottima orchestra, a un direttore cui nulla sfugga di mano e a cantanti tanto espressivi quanto d'irreprensibile precisione ritmica: in questa riproposta al Landestheater di Linz – città in cui Keplero visse una parte significativa della sua parabola scientifica e della sua accidentata esistenza terrena – tutti questi desiderata rispondevano all'appello.
I cinque atti si diramano lungo oltre quattro lustri di storia tedesca, nel corso di quel massacro a scatole cinesi che fu la cosiddetta Guerra dei trent'anni: ed è uno scontro che, in Hindemith, adombra un altro conflitto – la Seconda guerra mondiale – che nel '57 poteva dirsi ancora recentissimo e, per la Germania dei posteri, ben più devastante. Stando così le cose, il regista Dietrich Hilsdorf lascia che il Seicento asburgico si affacci nei bei costumi di Renate Schmitzer, giocando però la carta di un diacronismo dove echi novecenteschi s'insinuano nella visualità dello spettacolo ben più di quelli del diciassettesimo secolo. La solitudine del protagonista – malvisto dalla comunità scientifica non meno che dalla Chiesa – diventa l'isolamento d'ogni intellettuale dentro la Storia ma fuori del presente; e, in tale prospettiva, che Keplero abbia gli occhi a mandorla del baritono Seho Chang (morbido, trasparente, scandagliato: la lezione di Fischer-Dieskau, che di Hindemith cantò solo Mathis e Cardillac, è dietro l'angolo) non sembra fuori posto.
A sua volta Wallenstein, protagonista della Guerra dei trent'anni e dunque, in qualche misura, antagonista concettuale dell'opera (campo di battaglia versus specola astronomica), qui acuisce la sua natura di alter ego kepleriano: le loro due diverse ricerche di un'armonia del mondo – l'uno attraverso l'osservazione stellare, l'altro mediante i machiavellismi della politica – sono distanti, ma entrambe all'apparenza irrealizzabili. D'altronde per Hindemith, che scorgeva nella fusione tra cultura umanistica e scientifica un'altra possibile armonia cosmica, Wallenstein è più la proiezione del personaggio schilleriano che la rievocazione del personaggio storico. La regia di Hilsdorf coglie bene tale aspetto, agganciando il ruolo non solo alla letteratura tedesca di età romantica, ma pure a quella degli anni di Hindemith: questo Wallenstein che, passando di battaglia in battaglia, ad ogni quadro appare con una menomazione fisica in più sembra uscire da una delle pagine più feroci e aristocratiche di Lernet-Holenia. Lirico e squillante nel suono come un Duca di Mantova di prima scelta, ma introverso nel fraseggio come un antieroe britteniano, il tenore Jacques le Roux ne fa un'incarnazione memorabile.
Quanto agli altri interpreti, la locandina è troppo fitta per ricordarli tutti (pure l'elevato numero di personaggi ha inibito la circolazione di Die Harmonie der Welt). Ma non si possono ignorare almeno il lirismo caldo e gentile del soprano Sandra Trattnigg (il ruolo di Susanna è il più tradizionale, quanto a complessione canora), i robusti affondi contraltili di Vaida Raginskyte nei panni della madre di Keplero e il camaleontismo del basso Dominik Nekel, capace di sdoppiarsi in Rodolfo II e Ferdinando II: due facce, per Hindemith, di un potere imperiale parimenti perdente. Tutti ben sostenuti dalla bacchetta di Gerrit Priessnitz, saldo nel restituire l'estrosità timbrica e il magistero contrappuntistico della partitura: sicché, alla fine, si esce di teatro soddisfatti come dopo un'opera di repertorio. E con la convinzione che la morale conclusiva – solo nella morte si arriva all'armonia – sia serena, rassicurante e tutt'altro che deprimente.
Paolo Patrizi
11/6/2017
Le foto del servizio sono di Thilo Beu.