"Oh Dio mio!"
il Padreterno va in analisi
“Ai miei tempi per 5 marchi ti curava Freud in persona, per 10 marchi ti curava e ti stirava i pantaloni, per 15 marchi Freud lasciava che tu curassi lui e questo includeva una scelta tra due contorni… Ho letto la Bibbia recentemente, non male, peccato però che il personaggio principale sia poco credibile…”.
Quanto a yiddishkheit e, più ancora, in materia di yiddish sense of humour è difficile (se non impossibile) farlo senza “citarsi addosso” (il “gigante” Woody Allen docet, tra un “Grazie a Dio sono ateo” e un “Se Dio potesse darmi un segno! Per esempio intestandomi un conto in qualche banca svizzera…”), passando ovviamente per geniali, irriverenti e rispettosissimi aedi moderni, in testa l'irrinunciabile Moni Ovadia, ebreo che ride e irride.
Ma a dispetto dei suoi augusti predecessori ancora anagraficamente e creativamente vivissimi, Anat Gov (1953- 2012) - pregevole firma della maggiore testata israeliana, Yedioth Ahronoth , nonché attivista del “Campo della Pace” e brillante drammaturga, già nel 2004 promossa all'autorevole Festival di Edimburgo perché impalmata autrice del trittico Il casalingo, Care amiche e Dio mio! – ebbene lei sa farlo in punta di penna e con passo di piuma . Da un canto militante discreta e fermissima del witz di freudiana memoria, dall'altro autrice contemporanea dunque inscindibile da serrati ritmi scenici e dialoghi asciutti di sicuro effetto tragicomico.
Lo conferma l'atto unico Oh Dio mio! in scena al Teatro Musco di Catania (quale spettacolo ospite della stagione dello Stabile etneo fino al 19 gennaio) su produzione di Attori&Tecnici che lo propone nell'italiano agile e credibile di Enrico Luttmanm e Pino Tierno (che ne curano anche l'adattamento) su regìa di Nicola Pistoia, per suo conto attore estroso e convincente che in questa sede lascia la ribalta a due agguerriti e misuratissimi “mattattori”, Vittorio Viviani e Viviana Toniolo, affiancati da Roberto Albin nei panni del figliolo autistico di lei che per l'intera pièce parla solo attraverso le corde del suo violino (e lo suona sul serio, tra un Traümerei di Schumann e una Romance di Beethoven) salvo il liberatorio, attesissimo “Mamma!” pronunciato al finale. E giunto quasi per miracolo.
Già, è il minimo se in scena c'è Dio.
O solo, semplicemente il “Signor D”. Sono queste le stringatissime “generalità” che il signore in trench e cappello calcato sugli occhi fornisce all'ignara terapeuta, giusto per non scioccarla benché Ella (lei si chiama proprio così e in ebraico rimanda, tragicomicamente, a “quercia”) da brava psicanalista (non psichiatra, grazie a…Dio) ebrea, non dovrebbe stupirsi di nulla. Quantomeno non se il Padreterno, con i suoi 5774 anni, decide d'andare in analisi perché insoddisfatto e addirittura depresso dalla sua Creazione. E dai suoi tremendi, sconfortanti “risultati”.
In un interno vagamente New York Story “woodyalleniano” (scene di Alessandra Ricci, costumi di Isabella Rizza), ecco la scampanellata insistente e “wagneriana”, direbbe Oscar Wilde di The importance of being Earnest.
E' il signor “Io sono colui che sono”, di professione artista e, aggiunge, “piuttosto famoso”. Artista che crea o che si esibisce?, domanda la “dott” come da routine . L'uno e l'altro, replica lui – ed è già catturante, immediato motto di spirito.
E, quasi come l'ebreo (“figura comica” in sé, suggeriva Freud) che, tra un witz e l'altro, si smaschera togliendosi a poco poco gli sgraditi “belletti” imposti dagli altri, anche il Signor D si smaschera senza troppe cerimonie così come si libera del cappotto, restando in giacca nera e papillon.
“Sono Dio”, sbotta. Ed Ella: “Capisco. Da quanto si sente così?”. Così come?, rimbrotta lui. “Come Dio”, risponde lei. Io non mi sento come Dio, la corregge lui. “Grazie al Cielo, per un attimo ho pensato che avesse detto…”. Io sono Dio. E' la fine. Cioè l'inizio.
Il cahier de doléances che si apre di lì a poco non conosce regole salvo quella di osservare un crescendo che dal puro comico arriva a lambire il malinconico e il grottesco. A partire da quella finta e divertente doppia voce del Signor D che, affascinato dal ritratto di Marlon Brando che campeggia nello studio di Ella - nei panni di… The GODfather , nemmeno a dirlo - non resiste a scimmiottare voce roca e piglio facciale di Don Vito Corleone mentre ha già cominciato il gioco del rinfaccio a Ella che “in vent'anni non si è mai coricata senza ch'io riceva un rimprovero…”. Parola di Dio.
Ma tra le ripicche di lui e le resistenze di lei ecco il perfetto, teatralissimo “praticabile” fatto di giochi di parole degne del miglior Assurdo (“Voglio morire”, minaccia lui. “Per farlo, dovrebbe ucciderci tutti: lei fisicamente non esiste ma ci sarà sempre qualcuno che crede in Lei”, rimbecca Ella); di minacce (Un altro diluvio universale? “Sì e stavolta non lascerò in terra un solo uomo giusto”); di recriminazioni (a proposito del 6° giorno della Creazione, l'Uomo: “Perché non fermarsi prima? Se fossi stato concentrato, avrei forse creato questa schifezza?”, dice il Signor D e intanto indica significativamente il pubblico).
E, come il fucile del I atto che, diceva Anton Cechov, al III atto sparerà, uno yiddish humour che si rispetti non può mancare di yiddishemame , la tremendissima mamma ebrea di cui il Signor D però è orfano, “Con chi ce la prendiamo, allora?”, commenta Ella, scientifica. Né di un (in)sano pizzico di misoginia: “C'è voluto un minuto per convincere quella a mangiare la mela”, ammonisce l'impaziente “paziente”.
Dopo l'entrée agrodolce, le “portate” della cucina yiddish si fanno decisamente amarostiche, come i rimorsi di lui-Dio nei confronti di vecchie storie (la questione di Giobbe brucia ancora) e il semi-pentimento di lei-Ella quando, disperata per il figlio autistico, aveva inveito contro Dio chiamandolo “Hitler”, “terrorista”, “cannibale”.
Frattanto il climax drammaturgico coincide felicemente con il piglio nevroticamente, tragicomicamente istrionico dei due interpreti, talentuosi e capaci di un affiatamento crescente che sembra ridisegnarne i connotati.
Finalmente più “umano” lui-Dio (Vittorio Viviani), che da innominato “visitatore” (l'accostamento a Eric-Emmanuel Schmitt non è del tutto casuale) si addomestica ad una umana vulnerabilità che lo rende più vicino che mai.
Finalmente liberata e appagata lei-Ella (Viviana Toniolo) che da professionista freddamente rodata si trasforma in vera rabdomante dei travagli dell'anima.
“Il suo problema è che Lei non è mai stato abbracciato”. E' la sua diagnosi al “paziente”. Perciò i due si sciolgono in un abbraccio deontologicamente (s)corretto e salvifico.
Finalmente fuori piove. E quelle gocce sembrano quasi le lacrime di Filumena Marturano che, conosciuto anche il bene, adesso può chiagnere. Grazie a Dio.
Carmelita Celi
11/1/2014
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