Perennità di Pergolesi, wagnerismo di Spontini
«…E la chiamano provincia: quei due, messi insieme, pesano più di tutti i grattacieli di New York!». Ebbe a dire così – anni fa – Riccardo Muti, nel parlare di Giovanni Battista Pergolesi e Gaspare Spontini: due giganti della storia della musica che ebbero la ventura di nascere a pochissimi chilometri di distanza nel cuore delle Marche, rispettivamente a Jesi e a Maiolati, là dove in antichità si parlava di Respublica Aesina. Il primo così caro agli dei da poter vivere solo nei ventisei anni compresi tra il 1710 e il 1736, l'altro morto quasi in odore di santità settantasettenne nel 1851. Ma soprattutto: l'uno, pietra fondante tanto del realismo comico nel teatro d'opera quanto della musica sacra “modernamente” intesa; l'altro, ideale piattaforma (strutturale, se non concettuale) da cui partiranno molti impianti wagneriani.
Da quasi un quarto di secolo una fondazione, con relativo festival, perpetua a Jesi la memoria dei suoi due illustri figli. Tuttavia, se in questi lustri è stato sviscerato tutto il catalogo pergolesiano con spettacoli dal vivo (nel fascinoso Teatro Pergolesi) ed edizioni critiche a stampa, per Spontini le messe in scena si sono fermate alle opere giovanili di apprendistato, per lo più buffe e ad organico contenuto: le masse orchestrali e corali richieste dai grandi capolavori della maturità sono troppo pletoriche, rispetto alla portata del teatro jesino. Quest'anno però, in occasione del duecentocinquantenario dalla nascita di Spontini, la fondazione sta mettendo in moto una fitta serie d'iniziative – concerti, spettacoli, convegni – che sembra preludere a una più totalizzante renaissance spontiniana; e il concerto affidato appunto a Muti, che ha aperto le celebrazioni, è stata la più prestigiosa delle inaugurazioni possibili.
L'adesione di Muti – cui non a caso Maiolati ha conferito la cittadinanza onoraria – all'estetica spontiniana è pressoché incondizionata, per quanto ovviamente non acritica: sebbene a tutt'oggi ne abbia affrontato solo due titoli (Agnese di Hohenstaufen nei suoi folgoranti anni giovanili e La vestale circa un ventennio dopo, durante gli anni, più controversi, alla Scala), resta insieme a Vittorio Gui il direttore che ha saputo restituire con più esattezza quel protoromanticismo ancora imbevuto di severità classiciste che, per Spontini, è cifra stilistica ineludibile. Nonché, al contempo, quel talento combinatorio, quegli arditi accostamenti armonico-melodici, quegli inopinati primi piani di strumenti solistici che fanno dei melodrammi spontiniani quasi dei poemi sinfonico-vocali in abito esteriore di grand-opéra. Il concerto jesino è servito a Muti per tornare – con la più pensosa maturità dell'ottantenne che è oggi, e alla guida dei “suoi” ragazzi dell'Orchestra Giovanile Cherubini – sui medesimi passi di allora, dirigendo estratti da queste due opere: nella fattispecie, le grandi arie di Agnese e della vestale Giulia (quest'ultima nell'originale francese), nonché l'ouverture della stessa Vestale, pagina di straordinaria complessità che non perde nulla del suo appeal teatrale anche estrapolandola in sede concertistica. E a corroborare la strepitosità dell'esito ha contribuito Lidia Fridman, soprano tra i più interessanti dell'ultima generazione, non nuova a felici collaborazioni con Muti, che si è fatta carico dei due impervi brani vocali: voce straordinaria per colore (un singolare timbro ombreggiato, che all'occorrenza sa farsi scurissimo), volume (la sala del Teatro Pergolesi era letteralmente avvolta da un fiume di suono), estensione (registro acuto penetrante e note gravi di risonanze addirittura contraltili). Il tutto con una personalità interpretativa di primo piano, ma sempre rispettosa delle esigenze dello stile, che in Spontini non possono prescindere da un controllo emotivo di fondo: più che alla Callas, al cui nome è legato a filo doppio il ricordo della Vestale, volendole individuare un modello verrebbe da fare il nome di un'altra spontiniana doc come Leyla Gencer. Di cui la Fridman, tra l'altro, replica quella disomogeneità d'emissione che – lungi dal convertirsi in limite fonico – diventa invece plusvalore espressivo.
Inoltre, sebbene questa fosse la festa di Gaspare, Muti non ha inteso dimenticare Giovanni Battista. La prima parte della serata si è infatti aperta con il sublime Stabat Mater di Pergolesi: vuoi perché, stando a Jesi, un segmento pergolesiano era comunque doveroso, vuoi – forse – per la volontà mutiana di non essere mai da meno di Claudio Abbado, che molti anni fa diresse durante in questo teatro uno Stabat memorabile. Sempre corrisposto al millimetro dai giovani della “Cherubini” (nell'organico per soli archi previsto da questo capolavoro non meno che nell'orchestra opulentissima imposta dalla scrittura spontiniana), Muti ha esaltato in primo luogo la “teatralità” del Pergolesi sacro, il suo impiego di stilemi profani, la cura quasi operistica nel far risaltare le parole latine del testo. Insomma un'arte religiosa che si trasforma in arte poetica, come dicevano Novalis e Schlegel quando si soffermavano a Dresda davanti alla Madonna Sistina di Raffaello; e ne sortisce – come già in Abbado, ma con differente prospettiva – un Pergolesi libero da rigorismi filologici, anzi aperto alla musica del futuro, in una libertà stilistica che solo i classici “assoluti” (Bach, Mozart…) consentono davvero. Vocalità ovviamente imparagonabili a quella della Fridman, il soprano Damiana Mizzi e il contralto Margherita Maria Sala sono state due spalle puntuali: la prima forse penalizzata da una certa magrezza di emissione, ma assai mobile nel flettere la parola ora all'accenno ora alla declamazione, a seconda dell'espressività richiesta; la seconda di voce più tonda, ancorché meno vivida nella dialettica drammatica.
Successo grandissimo, e d'altronde prevedibilissimo, con appendice l'indomani: Muti a Maiolati che porta fiori sulla tomba di Spontini al mattino, replica del concerto ad Ascoli Piceno la sera.
Paolo Patrizi
2/4/2024
La foto del servizio è di Binci.
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