RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Traiettorie

Da Beethoven a Beethoven: quello delle Creature di Prometeo e della sempiterna Quinta, nella fattispecie. Passando però per Šostakovic; e non uno qualsiasi, ma del Concerto per pianoforte con accompagnamento di orchestra d'archi e tromba che, dietro l'organico anticonformista e scanzonato, lascia trapelare inequivocabili reminiscenze beethoveniane, a cominciare dall'utilizzo di un tema dell'Appassionata. Senza contare che pure sul fronte dell'esecuzione il gioco dei riverberi sembra moltiplicarsi, perché l'ouverture del Prometeo, così come viene restituita da Alevtina Ioffe, è un distillato di briose e sotterraneamente demoniache sonorità mozartiane, appaiate a nette escursioni di volume e dinamica che paiono discendere dai “crescendo” rossiniani. Il nuovo concerto proposto a Trento e Bolzano per la stagione dell'Orchestra Haydn, insomma, è un percorso – o forse un reticolo – di sollecitazioni musicali che s'intrecciano sottopelle: dove la parola “movimento” non ha solo il ben noto significato che la nomenclatura della musica sinfonica le attribuisce, ma rinvia proprio all'idea di uno zigzagante tragitto estetico.

D'altronde la russa Alevtina Ioffe, benché poco nota in Italia, è tra le più interessanti direttrici d'orchestra nella generazione delle quarantenni. Occhi magnetici e fisico flessibilissimo, per esprimere il suo pensiero musicale utilizza il viso e il corpo – spalle snodate, braccia come ali di gabbiana, mani capaci di segnali d'inaudita plasticità – prima ancora che la bacchetta. Con Šostakovic la consonanza culturale è ovviamente più immediata; mentre il primo movimento della Quinta, nel suo caso, sembra invece rientrare nell'alveo di una tradizione esecutiva – molto russa – senza soverchie concettualizzazioni, dove il “destino che bussa alla porta” sembra tradursi in una drammaticità marziale e lapidaria, piuttosto che nell'umano turbamento davanti a un'avversità insondabile. Anche il prosieguo della sinfonia, più che sul contrasto tra ribellione violenta dell'Io e ripiegamenti interiori più liricizzanti, sembra obbedire a una visione concitata e perentoria: ma proprio questo, anziché ingenerare monotonia, permette alla Ioffe di realizzare compiutamente il percorso interno della partitura e, dunque, il suo transito dalla tensione a un epilogo affermativo, basato sul trionfale superamento del conflitto.

Insomma una visione “eroica” (come a dire: una Quinta implicitamente apparentata con la Terza), forse avara di problematizzazioni – almeno rispetto ai parametri beethoveniani della grande tradizione tedesca – ma efficace e ben risolta; sebbene risulti più interessante, nella Ioffe, quel Beethoven giovanile del Prometeo così felicemente imparentato con Mozart e Rossini, dove il titanismo sembra sposarsi con una sotterranea componente ludica. L'Orchestra Haydn risponde comunque benissimo alle sollecitazioni della sua direttrice, sia a pieno organico sia nella veste per soli archi richiesta dal brano di Šostakovic. Qui il primo piano spetta però al pianoforte: l'ucraina Anna Kravtchenko – al di là dell'appeal mediatico che deriva oggi dal mettere a fronte una direttrice nata in Russia e una pianista proveniente dall'Ucraina – si è rivelata musicista salda e precisa, ancorché latrice di uno Šostakovic non idiomaticissimo, mostrando più spiccata personalità nel Notturno di Chopin offerto come bis. Peraltro, l'indole sostakoviciana graffiante e caricaturale qui sta innanzitutto negli assoli di tromba: Nicola Baratin, primo trombettista dell'Orchestra Haydn, è irriverente e grottesco come la partitura richiede e, senza bisogno di strafare, sa ritagliarsi decisivi primi piani.

Non in primo piano ma sullo sfondo, alle spalle dell'orchestra, stavano invece quattro spettatori trentini sorteggiati (due uomini e due donne, in perfetta par condicio), che hanno seguito la serata dal palcoscenico: un modo – consuetudine nelle stagioni della Haydn – per consentire la fruizione dei concerti da una visuale differente. D'altronde già agli inizi del secolo scorso un critico come Paul Bekker sosteneva che, in Beethoven, l'elemento di rottura era la creazione non di un nuovo modello sinfonico, ma di un nuovo pubblico.

Paolo Patrizi

15/4/2024

La foto del servizio è di Fondazione Haydn.