Amsterdam
Parallelismi forzati
La stagione dell'Opera della città, la più importante ma non la sola del paese, apriva con un nuovo allestimento dell'ormai arcinoto dittico Cav Pag per la regia di un uomo di grande talento nel teatro lirico contemporaneo, Robert Carsen. Si tratta di un notevole artista, intelligente, cui delle volte la troppa capacità (se mai ce n'è di troppa) gioca scherzi. In questo caso invertire l'ordine abituale gli va a pennello per fare un teatro nel teatro e l'opera di Leoncavallo ne trae grande profitto. I cori e alcuni professori che suonano dall'interno del Teatro per poi presentarsi in sala e sedersi – i coristi ma anche alcuni personaggi del dramma – nelle prime file di platea riservate a questo fine creano un'atmosfera dove contemporeanemente “il teatro e la vita non son (ma sono) la stessa cosa”. L'ambientazione più o meno contemporanea (in realtà indefinita) non toglie forza al soggetto, anzi ne fa risaltare la perenne validità – anche se poi non si traducono certe frasi come con la frusta del cane immondo... perchè non c'è frusta alcuna e poi magari qualcuno si sente a disagio con l'insulto (neanche difforme e contorto si legge) al diverso (e cioè Tonio). Ma la correttezza politica dovrebbe capire – e far capire – che allora si parlava e si sentiva così... Comunque, quel che funziona per Leoncavallo è meno adatto (molto meno) a Mascagni. Qui siamo nella generale – o pregenerale – di una recita di opera con dei dettagli sottili (le borse di Santuzza e Lola una accanto all'altro) ma fuorviante – Mamma Lucia quale addetta ai lavori che distribuisce partiture non è un fulmine e Alfio si capisce poco. Santuzza per metà interpreta (non ho capito il taglio di perché mi hai fatto segno di tacere a parte che non ci sia stato alcun gesto) ma poi si lascia prendere dall'interpretazione. Il preludio è tutto un prepararsi del coro (trucco, vestiti) per la prova; l'inno di Pasqua viene diretto realmente dalla responsabile del coro, Ching-Lien Wu. L'accusa contra Lola e Turiddu non ricade nella sola parola di Santa ma c'è anche un bel manifesto con loro due sorridenti. E l'effetto fa che ce ne sia poco di cavalleria e niente di rusticana.
Il maestro Lorenzo Viotti sostituiva il malato Marc Elder. Il vantaggio è che già direttore – molto amato – della Nederlands Philharmonsch Orkest che suonava qui, visto che non c'è un'orchestra propria del Teatro mentre c'è un coro. Il problema, semmai, sono dei tempi strani ed erratici che si trovano più di una volta, dove un preludio lentissimo diventa improvvisamente presto, dove non c'è sempre un bilancio perfetto tra buca e palcoscenico, e a scapito di quest'ultimo, manco a dire. Viotti mi era piaciuto tantissimo nel suo concerto di presentazione alla Scala. Forse manca un po' più di frequentazione del golfo mistico, e speriamo che per il Roméo et Juliette scaligero della prossima stagione alcune ‘scollature' non si ripetano. Bravissimi orchestra e coro (gli artisti amano muoversi). Due tenori, Brandon Jovanovich per Canio, Brian Jagde per Turiddu. Il primo interpreta molto bene con un canto assolutamente eterodosso e un'emissione sui generis che gli consentono di venire a capo del ruolo. Il secondo ha un bel timbro brunito, omogeneo (suonava molto meglio che ne La Gioconda di Barcellona), ampio, e l'attore è molto disinvolto anche se il fraseggio è assolutamente impersonale.
Roman Burdenko era Tonio e il Prologo e poi Alfio. Una voce scura e molto sicura ma alquanto monotona che curiosamente si sentiva di più in Leoncavallo che in compar Alfio (la sua aria lo trovava parecchio ingolato). Elena Zilio era la solita brava Mamma Lucia, e interessante risultava la prova di Rihab Chaieb nei panni di Lola. Ailyn Pérez m'interessava davvero per la prima volta come Nedda, e se la voce non ha troppo squillo e manca di un centro importante per alcuni momenti (“qual fiamma avea nel guardo”), cantava molto bene e sicura ed interpretava ancora meglio. Il nome era quello di Anita Rachvelishvili in Santuzza. Voce rigogliosa, enorme, interprete volenterosa ma tendenzialmente sopra le righe, con alcuni momenti che ci riportavano all'epoca di Lina Bruna Rasa – che poi era soprano – con note di petto eccessive che magari ad alcuni ancora sembrano d'obbligo. Certo che è difficile Santuzza – non una virago ma neanche una giovincella inesperta della vita. Molto simpatico e ben cantato il Peppe del giovane Marco Ciaponi. Per finire Silvio ci consentiva di vedere e ascoltare Mattia Olivieri in un nuovo ruolo che conferma l'infrequente qualità di voce, canto ed interpretazione – il momento della morte è stato impressionante, anche se all'inizio di Cavalleria i morti di Pagliacci si alzano e se ne vanno in allegre comitiva tra le quinte. Può darsi che sarebbe stato meglio non fare la lunga pausa e soprattuto non lasciare il pubblico applaudire in vano per fare solo i saluti di tutti a fine spettacolo. Teatro esaurito con attesa di biglietti e grandissimo successo.
Jorge Binaghi
6/10/2019
La foto del servizio è di Dutch National Opera/BAUS.
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