Splendori e miserie dell'opera italiana
Citando Daniel Barenboim, «Ogni grande opera d'arte ha due facce, una per il proprio tempo e una per il futuro, per l'eternità». Per le opere contemporanee, lo sguardo è ancora troppo vicino per poter comprendere appieno la portata di ciò che è stato appena prodotto. Meglio rimandare il giudizio definitivo (che non potrà mai essere raggiunto) in data da destinarsi. I Catoni saliti in cattedra troppo presto a pontificare non si contano nemmeno più, nella storia della musica come di tutte le altre arti. «Il mio tempo verrà» disse Mahler di fronte all'incomprensione cui andarono incontro le sue Sinfonie. Eppure tali espressioni registrano un accoglimento figlio della propria epoca, a ben pensarci né giusto né sbagliato: necessario.
Lo scrivente si perita di anteporre questa premessa prima di esprimersi su Ehi Giò di Vittorio Montalti. Scritto nel 2016 su commissione del Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto, questo lavoro teatrale è stato successivamente rivisto e presentato nella sua veste definitiva al Maggio Musicale Fiorentino (MMF) nell'ottobre del 2018. Mi riferisco qui alla recita di domenica 28. “Lavoro teatrale” perché di “opera” vera e propria non si può parlare. C'è della musica, quella di Montalti; c'è un libretto, quello di Giuliano Compagno. Ma non basta per definirlo opera. C'è molta recitazione in prosa. Una commedia musicale? Un musical? Non proprio. Un Singspiel? «Ma neanche» (Gadda). Un ibrido in atto unico per un attore, un performer, tre cantanti, piccola orchestra (8 musicisti) ed elettronica. L'argomento si desume dal titolo completo: Ehi, Giò – vivere e sentire del grande Rossini. Nell'anno che celebra il centocinquantenario della morte del Pesarese (13 novembre 1868), pare che caschi a fagiolo una rivisitazione teatrale di un uomo che in pratica visse di teatro. Ma, lungi dall'essere una pedissequa biografia musicata o un florilegio di aneddoti, Ehi Giò interpreta in chiave onirica e psichedelica proprio il “vivere” e il “sentire” raccontato da un Rossini morto e vivo allo stesso tempo (l'attore), ormai ritiratosi nella sua villa di Passy e che interagisce con gli spettri di Olympe Pélissier, la prima moglie, del soprano Isabella Colbran, di Domenico Barbaja, l'impresario, di un critico petulante, di Balzac, di quelli dei suoi stessi genitori (molti i riferimenti a Lugo, città natale del padre dove Rossini trascorse diversi anni dell'infanzia), tutti interpretati a turno dai tre cantanti (soprano, tenore, baritono). Il tutto commentato da un performer, voce recitante esterna impersonale, e amalgamato in un'alternanza di dialoghi (molto spesso di monologhi) e brani musicali in libero andirivieni su e giù per la scala temporale.
Di fronte a ibridi di questo tipo ritorna la vexata quæstio: che cosa si potrà mai scrivere nel 2018, dopo che ormai tutto è già stato scritto? Non certo un ricalco del passato, operazione a suo modo già tentata col Neoclassicismo alla Stravinskij e con gli epigoni italiani (Dallapiccola, Tartiniana); non una rifondazione a partire dall'entità suono, anch'essa via già battuta (Ligeti, Musica ricercata). Nell'ansia di voler andare verso il nuovo, il rischio è quello di aprirsi a colpi di machete sentieri perigliosi e malsicuri nella giungla del brutto, spacciato per innovativo. Innovativo di sicuro Ehi Giò lo è, sebbene l'accostamento di strumenti tradizionali ed elettronica non sia proprio una novità, vedi Iannis Xenakis e Karlheinz Stockhausen. Ma è un innovativo forzato, e perciò pretenzioso. Vero è d'altro canto che ciascuna musica è stata contemporanea di qualcuno e non sempre è stata apprezzata, come si diceva: «Questo è il caos. Questa è demagogia, bestemmia, pazzia! […] Questa è la fine di ogni morale nell'arte» fa dire Thomas Mann a Pfühl nei suoi Buddenbrook» (trad. Ervinio Pocar) a proposito di Wagner. Oggi ne sorridiamo. E se non ci fosse mai stata innovazione saremmo ancora al gregoriano. Ma qui si raschia il barile. La musica, pur esibendo strutture contrappuntistiche degne di nota, che giocano con le sillabe della parola (sulla scorta del duetto Pa...pa...pa mozartiano, per capirci), spinge la pazienza e la sopportazione del pubblico all'estremo, quando si esibisce in complicati, incomprensibili arzigogoli, totalmente privi di melodia, riassumibili in ciò che scrissero i contemporanei su Šostakovic: «Caos anziché musica». Certo ci si può chiedere: perché fare per forza, “opera di melodia”? Non si può rappresentare qualcosa con suoni non melodici, come i pittori astratti che rinunciano alla figura? Sì: si può. E il risultato è in questo caso un'accozzaglia di rumori. Emblematico il Vergogna! esploso di pancia (alla Toscanini) dalla platea, al termine dello spettacolo, prima che i buuu venissero seguiti da applausi poco convinti. La struttura disorientante del libretto, poi, violenta la psicologia del fruitore, sebbene alcune chicche, come il riferimento alla musique sacrée/sacrée musique rossiniana, o la citazione dickensiana da Le due città in apertura e quella di Zone di Apollinaire in chiusura sono notevoli. Lo stesso titolo si richiama a Hey Joe di Jimi Hendrix e a Eh Joe di Samuel Beckett.
Francesco Saponaro ambienta Ehi Giò in spogli studi di registrazione anni Sessanta-Settanta, collocando l'ensemble strumentale in un angolo del palco (solisti dell'Orchestra del MMF) e l'elettronica in una camera a vetri in alto (Tempo Reale/Damiano Meacci alla consolle). Curioso l'uso del flauto basso e di svariate percussioni (padelle?). Ludovico Fededegni interpreta un performer esagitato a convulso senza motivo: si ignora se per colpa del regista o di un suo bizzoso estro personale. Prestazione invece ottimale per l'attore, Tony Laudadio, molto naturale e spontaneo, per il soprano Ljuba Bergamelli, non nuova alla collaborazione con Montalti, per il tenore Gregory Bonfatti, timbro chiaro e voce leggera, e per la voce robusta e scura del baritono Salvatore Grigoli, chiamato anche a esibirsi in falsetto.
Sotto la bacchetta di Marco Angius, alla testa dell'Orchestra e del Coro del MMF (istruito da Lorenzo Fratini), viene diretta anche Le Villi, esordio operistico di Giacomo Puccini su libretto di Ferdinando Fontana (dal racconto Les Willis di Alphonse Karr, 1852) scritto negli ultimi mesi del 1883 per il concorso Sonzogno e consegnata in extremis l'ultimo giorno utile, il 31 dicembre. Opera negletta, eclissata dalla notorietà e dalla bellezza delle sue future sorelle maggiori, ma che già preconizza l'avvenire di operista di Puccini, che i suoi insegnanti di conservatorio volevano sinfonista, dati gli esiti promettenti di quel Capriccio sinfonico che già conteneva il materiale tematico dell'incipit della Bohème. Data per favorita, Le Villi non vince il Sonzogno; in compenso, il successo delle prime rappresentazioni, da quella del 31 maggio del 1884 (Milano, Teatro Dal Verme) a quella del 27 dicembre dello stesso anno (Torino, Teatro Regio), dove l'opera appare nella versione definitiva in due atti, fanno sì che con lungimiranza Ricordi si accaparri quello che sarebbe diventato l'operista più significativo dell'ultimo Ottocento, prima che Verdi sparasse le ultime due cartucce (vere e proprie bombe!) di Otello (1887) e Falstaff (1893). L'argomento è in linea con le tendenze scapigliate dell'epoca. Il giovane Roberto, fidanzato di Anna, parte per Magonza a riscuotere un'importante eredità, dopo aver duettato in casa del di lei padre, Guglielmo Wulf. A Magonza, però, tradisce Anna con una sirena (evidenti i punti di contatto col Rake's progress stravinskijano). Anna muore di dolore. Roberto, pentito, torna a casa, ma le Villi, spiriti vendicatori dell'amor tradito, lo costringono a ballare fino allo sfinimento. Anna, trasformatasi in una di loro, esulta sul cadavere di Roberto.
Sempre Francesco Saponaro prosegue con scene minimaliste stilizzando gli alberi della foresta sullo sfondo e rendendo funzionale la camera di Anna a inizio opera che diventa il suo catafalco, paludato di drappi neri, alla fine, da cui emerge quale virago in abito da sera rosso. Tony Laudadio, smessi i panni rossiniani, è qui la voce recitante. Maria Teresa Leva interpreta una Anna convincente, animata da un afflato più romantico che scapigliato, con voce sicura che si dispiega dolcemente soprattutto in Se come voi piccina con un buon legato. Timbro chiaro e poco robusto invece tanto per il Roberto di Leonardo Caimi, quanto per il Guglielmo di Elia Fabbian. Comprensibile, però, nel caso di Caimi, dati gli arditi passaggi nell'acuto che richiedono una certa agilità vocale. L'aria più famosa, Torna ai felici dì, frutto dell'ampliamento posteriore dell'opera, è stata resa con intenzione e sentimento, e con espressione teatrale verosimile, delineando un interprete a tutto tondo che indubbiamente sa il fatto suo. E poi non è solo il timbro a dar fascino a una voce. Quella di Fabbian, per esempio, trova felice via di espressione nell'animata scena e aria a inizio secondo atto No! Possibil non è che invendicata, dove un'accorata partecipazione rendono anche più viva la resa scenica di Guglielmo.
E poi ci sono loro: le Villi, impersonate dal corpo di ballo della Compagnia Nuovo BallettO di ToscanA (sic), figure nerovestite, discinte e scalze, una delle quali chiamata a turbare e a interagire, a nome delle altre, l'ormai upplice e dannato Roberto. Interessante inoltre l'idea di sdoppiare il suo personaggio in alter ego danzanti, a impersonare le sue paure. In un'opera-ballo come questa, dove la componente scenica e sinfonica risulta tanto importante quanto quella cantata, dove avviene la tanto auspicata da Wagner fusione delle arti, è fondamentale poter disporre di una compagnia valida e di coreografie d'impatto. Quelle di Susanna Sastro, su costumi di Chiara Aversano, sono parse appropriate, con quel tocco di maliosa sensualità apportato dalle ballerine a seno nudo.
Il pubblico, visibilmente reinnervato da questa iniezione di musica sana e robusta (e obiettivamente bella), applaude in modo convinto.
Christian Speranza
9/11/2018
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