RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il numero due

Dittico al quadrato. Due titoli diversissimi, legati da un sottile fil rouge concettuale, ma pure titoli che prevedono entrambi due soli personaggi in scena. Nonché, a scompaginare più ancora il quadro, coppia di lavori “ontologicamente” diversi, appartenenti l'uno al mondo della danza, l'altro del teatro lirico.

Gioca la carta del Konzept lo spettacolo inaugurale della stagione jesina, costretta in tempi di Covid a ridisegnare il cartellone, facendo rientrare dalla finestra delle operazioni sfiziose quanto era uscito dalla porta dei tagli sanitario-finanziari. Dunque, ecco questa strana coppia formata dallo Stravinskij “settecentista” di Suite Italienne e dal Settecento “vero” del dimenticatissimo Lesbina e Milo di Giuseppe Vignola. Insomma un duplice omaggio, in quella Jesi che gli diede i natali, a Giovanni Battista Pergolesi: i quadretti comici di Lesbina e Milo (1707) s'inseriscono in un prolificissimo filone – quegli “intermezzi” inframmezzanti a mo' di parentesi ridanciana gli atti delle paludatissime opere serie della prima metà del diciottesimo secolo – che troverà la punta di diamante nella Serva padrona pergolesiana. Mentre, d'altro canto, Suite Italienne (1932) rappresentò per Stravinskij, sotto forma di pagina strumentale per violoncello e pianoforte, un tornare – ripensandoli – ai temi elaborati una dozzina d'anni prima nel suo celeberrimo balletto Pulcinella, che delle musiche di Pergolesi era al contempo omaggio mimetico e riflessione ermeneutica.

Violoncello e pianoforte, però, da soli non “fanno teatro”. Per ovviarvi, la suite è stata proposta in un'inedita veste di balletto, rafforzando così il legame di discendenza con Pulcinella. E siccome le vie del palcoscenico sono infinite, anche Lesbina e Milo viene proposto con un'impaginazione atipica: quelli che dovevano essere piccoli sketch satellitari a un'opera maggiore (che qui, ovviamente, non c'era) si trasformano nel baricentro della serata; e a fare da riempitivi, tra una scenetta e l'altra, sono invece breve pagine per archi appartenenti alla stessa civiltà musicale napoletana di Vignola, da Nicola Fiorenza a Nicola Porpora. Il risultato? Uno spettacolo stimolante e un po' disordinato, come spesso accade quando si ha a che fare con una serie molto ampia di sollecitazioni. E anche di una disomogeneità qualitativa (sarebbe penalizzante per l'onesto artigiano Vignola una pur minima ipotesi di confronto con Stravinskij) speculare alla disuguaglianza di resa esecutiva, perché la coppia degli straordinari coreografi-danzatori di Suite Italienne surclassano il volenteroso soprano e il simpatico tenore di Lesbina e Milo.

Lavorando a loro volta sul tema – implicito in ogni dittico – dei rimandi e delle specularità, Sasha Riva e Simone Repele creano una sorta di passo a due tra Pulcinella e il suo “doppio” (il contadino Puccio d'Aniello, fonte per le prime elaborazioni del personaggio): ne scaturisce un viaggio fiabesco e crudo, tenero e violento, che restituisce il cuore oscuro di quella maschera biancovestita e, al tempo stesso, ci rammenta la natura fittiziamente popolare, ma in realtà tutta di testa, dell'operazione compiuta da Stravinskij. Le altre due polarità in dialettica tra loro – il violoncello di Riccardo Pes e il pianoforte di Andrea Boscutti – appaiono, al confronto, meno icastiche: quasi che la musica prendesse forma dai corpi dei ballerini, prima che dai due strumenti. Belli i costumi di Anna Biagiotti, a cominciare da quello che ricostruisce il figurino di Picasso per la première del balletto stravinskiano.

Lesbina e Milo poteva contare invece sulla franca medietas – Vignola non richiede di più – della bacchetta di Marco Feruglio, ben servito, soprattutto nei brani di Fiorenza e Porpora che fungono da “intermezzi dell'intermezzo”, dall'Orchestra Filarmonica Marchigiana a ranghi ridotti. Detto che Giulia Bolcato rende l'archetipo della servetta scaltra meglio di quanto Alberto Allegrezza restituisca quello del soldato fanfarone, resta da parlare della messinscena, affidata (per creare un'ideale liaison con la prima parte dello spettacolo?) a una regista-coreografa come Deda Colonna. Afflati coreutici, però, qui non se ne notano, mentre è proprio la regia in senso stretto a partire da un'idea “forte”: motteggi e schermaglie dei due protagonisti confluiscono tra le poltrone diroccate di una platea abbandonata, con brandelli di sipario qui, ammassi di scenografie là (Benito Leonori è straordinario nell'assemblare fondi di magazzino e ricavarne uno struggente tableau). Siamo insomma alla resa dei conti, la pandemia ha fatto saltare i rimasugli di una capacità produttiva compromessa da tempo, mai come ora il teatro d'opera – non solo quella sua particolare forma che è l'intermezzo – appare l'ultimo avanzo d'una stirpe infelice. Poi, in sottofinale, mentre soprano e tenore s'inerpicano negli ultimi lazzi e svenevolezze, sopraggiungono la regista, lo scenografo in mascherina anticovid e i tecnici: tutti in pieno fervore creativo. E sembrano volerci dire che per la musica e lo spettacolo (tanto più quando, come in questo caso, entrano in sinergia opera, balletto e brani strumentali) un futuro c'è ancora. Forse.

Paolo Patrizi

23/10/2020

La foto del servizio è di Stefano Binci.