Gli occhi e la voce
Cosa separa, e cosa accomuna, il napoletano Ruggero Leoncavallo e il parigino Francis Poulenc? Innanzi tutto li divide l'anagrafe: il primo nasce nel mezzo dell'Ottocento, il secondo all'estremo declinare di quel secolo. A separarli provvede poi non tanto la provenienza – Leoncavallo per un lungo periodo si stabilirà a Parigi – quanto l'indole: l'uno crede nella cultura ufficiale (corso di composizione a San Pietro a Majella, studi letterari con Carducci) e s'installa presto nell'ambiente musicale; l'altro, cresciuto in un ambiente più benestante e anticonformista, studia musica privatamente già in tenera età, ma fatica a esser preso in considerazione: troppo eterno fanciullo, troppo dilettante di genio, forse pure troppo ricco. Infine, li divide l'aspetto: nell'italiano viso grassoccio con pappagorgia, chioma da ex bohèmien, sguardo malinconico e come opacizzato da una digestione laboriosa, baffi foltissimi arricciati a manubrio; nel francese volto affilato, pochi capelli, sguardo penetrante, baffetti radi fatti crescere solo in età avanzata. Come dire: in Leoncavallo trapela una malinconia riflessiva e un ancoraggio alla cultura ottocentesca, sia pure filtrata attraverso la Scapigliatura, di cui i baffoni sono simbolo ed epitome; in Poulenc traspare un anticonformismo snob, tipico di chi preferisce affrancarsi dalla tradizione con l'understatement più che con le rivoluzioni, e una freschezza da figlio del nuovo secolo appena sorto. Arduo, invece, scovare analogie. Si potrebbe citare l'amore per il caffè concerto: Leoncavallo, che a quel mondo dedicò l'opera Zazà, iniziò la sua fase parigina come pianista di café-chantant; e in quello stesso ambiente Poulenc trovò un vero e proprio retroterra culturale. Si può poi aggiungere, volendo, che tanto Pagliacci quanto La voix humaine sono dei capisaldi della gelosia nel teatro musicale. Ma insistere nelle similarità sarebbe peregrino: e il dittico ora allestito al Teatro Verdi di Pisa, dove alla Voix si affianca il postumo e incompiuto Edipo Re, non offre ulteriori ipotesi di aggancio, pur racchiudendo in una stessa tenebra gli occhi accecati del re di Tebe immortalato da Sofocle e la voce soliloquiante al telefono della donna immaginata da Cocteau. Basta l'emozione di abbinare una tragedia archetipica a uno psicodramma sempre attualissimo per motivare l'accoppiamento.
Resta poi la curiosità di vedere a Pisa un'opera scritta ad personam per il più grande cantante pisano di tutti i tempi: Titta Ruffo, ovviamente, il cui contributo alla diffusione planetaria dei Pagliacci non fu meno decisivo di quello di Caruso. Ormai in cattive acque per salute e per finanze, lo stanco Leoncavallo tentò un ultimo rilancio grazie al proprio baritono-feticcio, ma la morte lo colse prima di porre fine all'impresa. Difficile dire quale sarebbe stata la fisionomia definitiva di questo densissimo atto unico, dove il protagonista è ininterrottamente in scena, anche perché l'umile completamento di Giovanni Pennacchio – fedele collaboratore degli ultimi anni creativi di Leoncavallo – si limita a riempire i “buchi” rimasti con materiale leoncavalliano di altra provenienza: il fatto stesso che Ruffo nelle sue memorie parlasse di un ruolo meraviglioso «per i suoi cantabili e le spontanee melodie», quando poi a colpire l'ascoltatore sono il dissonante substrato sinfonico, la violenza percussiva e il frastagliamento della declamazione, appare sintomatico di una certa relatività espressiva.
Insomma, suo malgrado, un'opera aperta: stilisticamente centrifuga, comunque più vicina agli urti squassanti dello Strauss di Elektra che alla severa uniformità del Pizzetti di Fedra, ben delineata in certi rapidi ma strazianti innesti corali (nessuna pretesa di rinnovarvi il ruolo del coro nella tragedia greca), servita da un libretto di Forzano plastico e conciso, ma che non rinuncia a personalismi linguistici. E il fatto che all'orizzonte non si profili alcun nuovo Titta Ruffo (ma l'ultimo possibile successore fu Gino Bechi…) non deve porre in sottordine i meriti di Giuseppe Altomare: forse un po' velato al centro, eppure sonoro e robusto quanto basta per non soccombere a un'orchestra di somma invadenza fonica, oltre che ottimamente scolpito nella dizione.
La matura sensualità che permea, nel gesto e nel canto, la Giocasta di Paoletta Marrocu, voce ormai gravida di disomogeneità ma sempre espressiva (e che trova proprio in certe disuguaglianze d'emissione una pregnanza in più), è un altro atout di questo spettacolo, di cui sono tasselli importanti pure la vocalità biancastra e penetrante del Creonte di Max Jota e la sepolcrale spossatezza del Tiresia di Francesco Facini. Mentre nel monologo poulenchiano Anna Caterina Antonacci si conferma dicitrice calibratissima, attrice di rapinosa isteria, mattatrice impagabile nel pilotare il pubblico verso un' unità di azione obbediente alle vicende interiori del personaggio. Il palcoscenico è sempre suo, anche quando la regia di Emma Dante lo riempie di altre figure, proiezioni dei fantasmi della protagonista: soluzione non sempre congrua per il desolante spazio vuoto promanante in una partitura che è, innanzi tutto, il corpo a corpo tra una donna sola e un'orchestra chiamata a farle da unica interfaccia. Più riuscita la sobria, e non firmata, mise en espace dell'atto unico di Leoncavallo, dominata da una proiezione di Titta Ruffo nel ruolo del protagonista e dal manichino del suo costume di scena come Edipo. Mentre Daniele Agiman, sul podio della giovane e concentrata Orchestra Arché, è il collante tra le due parti dello spettacolo: mostrando di credere alle pletoricità di Leoncavallo non meno che alle rarefazioni di Poulenc.
Paolo Patrizi
5/3/2019
Le foto del servizio sono di Imaginarium Creative Studio (per Edipo Re) e di Rocco Casaluci (per La voix humaine).
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