Magie e ossessioni di Ravel
al Teatro dell'Opera
E lo scorrere del tempo, dal quale Maurice Ravel sembra ossessionato in maniera nevrotica, il protagonista del dittico andato in scena al Teatro dell'Opera di Roma dopo un'assenza di oltre sessantacinque anni. La ritmica dell'orologio riveste infatti un'importanza capitale ne L'heure espagnole, ma anche L'enfant et les sortilèges non sfugge ad una predilezione morbosa per gli automatismi; uno spunto che ci permette di azzardare una interpretazione in chiave letteraria e proustiana, venata di sprazzi psicoanalitici.
Lo scrittore Jean Echenoz, nel suo romanzo dedicato al compositore francese, ci mostra un uomo la cui abitazione è affollata “di oggetti minuscoli, miniature d'ogni sorta, statuette e ninnoli, carillon e giocattoli a molla”, quasi a scandire in maniera meccanica il noioso scorrere delle sue giornate. Ne L'enfant et les sortilèges il tempo dell'infanzia coincide con quello della fiaba. Un mondo imparentato con le fantastiche avventure di Alice partorite dalla fervida immaginazione di Lewis Carroll, o con i regni fatati di Hans Christian Andersen. Il libretto di Colette narra di un bambino dispettoso improvvisamente catapultato in una dimensione stregata, preda di visioni che rasentano l'incubo. L'atto di disubbidienza nei confronti della madre rappresenta una cesura che pone fine all'età dell'innocenza, precipitando il protagonista in una ridda di inspiegabili apparizioni. L'orologio mutilato dal monello è una frattura ardua da sanare, simbolo di un tempo non più imbrigliato dalle convenzioni. Anche il corteo dei personaggi discesi dalla tappezzeria strappata rappresenta un turbamento dell'ordine borghese, una lacerazione che ricorda le allucinazioni prodotte dall'hascisc descritte da Baudelaire. L'idillio infantile si incrina lasciando spazio ad una vena di inquietudine. Il riscatto morale del bambino e la conclusiva riconquista dell'amore materno garantiscono il lieto fine, ma non cancellano l'ambiguità del testo ed il senso di nostalgico dolore verso un qualcosa che è definitivamente tramontato. In Proust l'infanzia si identifica con un paradiso perduto, al quale è possibile accedere solo tramite i meccanismi della memoria involontaria. Nello scrittore francese l'attesa del bacio di buonanotte della madre rappresenta uno stato di beatitudine, al quale inevitabilmente seguirà l'amarezza dell'assenza.
Anche l'immaginario di Ravel è abitato dalla presenza ingombrante della madre, che condizionerà sempre i suoi rapporti con l'altro sesso. L'infanzia definitivamente estinta resta inattingibile, avvolta da un'aura di struggente nostalgia. Ne L'heure espagnole il tempo della frivola commedia degli equivoci viene scandito dal ticchettio degli orologi che affollano la bottega di Torquemada. L'intera vicenda, con il grottesco via vai degli amanti nascosti nelle pendole, somiglia ad un grande carillon nel quale i personaggi agiscono a guisa di automi, come quelli che affollano le vetrine dei negozi di giocattoli durante le feste natalizie. Al cospetto del teatro di Ravel, lo spettatore non può far altro che appoggiare il proprio viso fanciullesco al vetro ed osservare lo schiudersi di un mondo magico, a volte affetto da manierismo, comunque sempre incantevole e ammaliante.
Di questo universo Charles Dutoit è magistrale interprete. La sua direzione, pregna di raffinatezze, preziosismi e dettagli iridescenti, sfugge ogni rischio di artificio, sempre in agguato in una scrittura che ha nel pluristilismo la propria ragion d'essere. Le figure magiche de L'enfant et les sortileges, i pastorelli, lo scoiattolo, la libellula, la principessa, non appaiono come semplici simboli, ma vengono accarezzati da un'aura di toccante umanità. Straordinario l'episodio del bosco notturno, soffuso di una luce misteriosa e intessuto di pura poesia.
Lo spettacolo di Laurent Pelly è quello andato in scena al Glyndebourne Festival. Ne L'heure espagnole ci troviamo in un ambiente che somiglia più alla bottega di un rigattiere che al negozio di un orologiaio, con uno scheletro che si agita ritmicamente ed una pletora infinita di improbabili oggetti. L'azione si colloca negli anni settanta, visto che il personaggio di Gonzalve appare abbigliato come un eccentrico figlio dei fiori. Dal punto di vista vocale la migliore è Stéphanie d'Oustrac, una Concepciòn veemente e focosa come si conviene. Il risultato è nel complesso brillante, anche se l'eccessivo rilievo dato all'aspetto caricaturale sacrifica un poco l'erotismo presente nella partitura. Senza dubbio è ne “L'enfant” che Pelly dà il meglio di sé. Qui la singolare alchimia di realtà e sogno viene tradotta con inesauribile fantasia ed abbondanza di idee. Spettacolare ad esempio l'episodio del fuoco che balza fuori dal camino, con la cantante issata su una macchina avvolta da un velo svolazzante che simula l'agitarsi della fiamma, intrisa di poesia l'immagine della principessa perduta su una enorme sedia semovente, la quale svanisce come un sogno, animata da grande ironia la scena dell'incubo numerico, di enorme suggestione il finale con il bosco fatato e la sua brulicante fauna notturna.
Nell'ambito di un cast numerosissimo e di buon livello complessivo, una menzione speciale meritano Kathleen Kim (il fuoco, la principessa, l'usignolo) e il bambino di Khatouna Gadelia. Pubblico non molto numeroso nonostante siano solo quattro le repliche in programma (dopo lo sciopero che ha cancellato la prima), un'ennesima prova di come la curiosità del pubblico operistico romano debba essere ancora sollecitata e costruita.
Riccardo Cenci
3/2/2014
Le foto del servizio sono di Laura Ferrari.
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