Puccini e Bartók
Alchimie dell'inconscio
Apparentemente divergenti, il realismo del Tabarro di Puccini e il simbolismo del Castello del principe Barbablù di Bartók trovano inaspettate tangenze nell'allestimento visto al Teatro dell'Opera, parte di un progetto che, in tre stagioni consecutive, scomporrà il Trittico accostandone i titoli a diversi atti unici novecenteschi. Operazione di indubbio interesse, che mira a creare inediti percorsi intellettuali. Ne risulta un dittico incentrato sull'indagine dell'interiorità umana, sui suoi abissi più reconditi. L'impianto registico di Johannes Erath sgombra il campo da qualsiasi retaggio naturalistico, unificando il registro visivo delle due opere. Non è un caso che il sogno di Giorgetta, il desiderio di abbandonare una vita misera ed erratica sul barcone di Michele, sia popolato dalle medesime figure che abitano l'ultima stanza del castello di Barbablù, le donne da lui amate nel passato. Il collegamento fra i due titoli viene ordito a livello onirico. L'operazione non è peregrina in quanto, a ben guardare, il presunto verismo del Tabarro si stempera in atmosfere nebbiose e incerte che paiono anticipare il lirismo visionario dell'Atalante di Jean Vigo. In quest'ottica il volto di Luigi, strangolato da Michele, appare deformato nella materia acquatica proiettata sul palcoscenico; l'evidenza fisica dell'omicidio si liquefà nel sogno. Un'immagine che alimenta con sagacia il gioco delle corrispondenze. Il lago di lacrime che si cela dietro la sesta porta del maniero, infatti, non è altro che un simbolo dell'inconscio e dei terribili segreti in esso celati. Lo stesso Puccini identificava nella Senna il reale protagonista del suo dramma. L'acqua, con il suo scorrere eterno, fornisce ipnotiche atmosfere alla vicenda. La concretezza del castello di Barbablù si disgrega nell'alito ventoso che agita enormi tendaggi, dai quali compaiono incerte figure intessute di ombre. La memoria è fonte di dolore. Nel Tabarro Michele rimpiange l'amore estinto di Giorgetta, mentre la camera delle mogli di Barbablù non è altro che memoria, dolorosa, inattingibile ed eterna. In Puccini la figura del rivale Luigi è la personificazione di un amore già concluso, l'elemento di disturbo che concretizza una crisi già in atto, mentre in Bartók il percorso compiuto dai due protagonisti equivale a una vera e propria discesa negli abissi dell'anima. La colpa di Judit, come quella di Elsa nel wagneriano Lohengrin, è di voler penetrare l'individualità dell'amato. Ci sono segreti che devono restare tali, pena la perdita e il lutto. Michele Mariotti dirige entrambe le partiture con maestria coloristica, sensibilità cromatica e senso della narrazione. In Puccini prevalgono le tinte impressioniste, il clima nebbioso e sfumato. In Bartók non traccia sciabolate espressionistiche, ma è costantemente alla ricerca del dettaglio e della giusta atmosfera. L'Orchestra dimostra di seguirlo perfettamente nelle sue intenzioni interpretative.
Riguardo i cast, nel Tabarro spicca Luca Salsi, un Michele profondamente umano, afflitto dalla consapevolezza dell'inevitabile perdita del proprio amore. Gregory Kunde è un Luigi ben cantato ma più prosaico e per questo meno interessante. Brava Maria Agresta nel ruolo tormentato di Giorgetta. Discreti i ruoli di contorno, dalla Frugola di Enkelejda Shkoza al Tinca di Didier Pieri. Mikhail Petrenko, che avevamo già avuto modo di apprezzare in occasione della Khovanshchina scaligera, è un Barbablù di grande personalità e presenza scenica. La voce non è enorme ma appare ben governata e capace di innumerevoli sfumature espressive. Gli sta accanto l'eccellente Judit di Szilvia Vörös, di grande temperamento e vocalmente solida in ogni registro. Al suo ingresso in scena appare come la vittima predestinata ma, con il procedere della vicenda, l'impostazione registica la trasforma in una sorta di dominatrice, in grado di imporre la propria volontà al pur terrifico consorte; mutamento reso in maniera molto convincente. Operazione dunque perfettamente riuscita e apprezzata dal pubblico in sala.
Riccardo Cenci
16/4/2023
La foto del servizio è di Fabrizio Sansoni.
Ricordo di Domenico De Meo
Da sinistra: Flaminia Belfiore, Antonio Fiumefreddo e Domenico De Meo.
Nato a Catania il 22 febbraio del 1928 nella casa al primo piano di Via Ventimiglia n. 280, Domenico De Meo si diplomò brillantemente in pianoforte presso il Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli e successivamente si perfezionò sotto la guida del M° Paolo Denza, esibendosi per illustri istituzioni musicali, operando anche per circa un decennio in qualità di maestro sostituto presso il Teatro Massimo Bellini di Catania. Fu altresì impegnato nell'insegnamento come titolare della cattedra di teoria del ritmo ed estetica musicale all'ISEF di Catania e docente di pianoforte nel corso ad indirizzo musicale istituito dal Ministero della Pubblica Istruzione presso la Scuola Media Statale “G. Leopardi” di Catania, ricoprendo altresì l'incarico di direttore artistico della stagione artistica ivi programmata.
All'attività artistico-didattica presto affiancò anche quella di critico musicale e musicologo, collaborando con articoli e brevi saggi al quotidiano “La Sicilia” ed al mensile “Musica e Dossier”, realizzando anche molti programmi di sala per il Teatro Massimo Bellini di Catania e altre istituzioni nazionali ed estere.
Tra le edizioni filologiche belliniane da lui curate, vasta risonanza internazionale ha avuto il lavoro di ricostruzione, revisione e trascrizione della partitura e del libretto della seconda versione dell'opera Adelson e Salvini in scena al Teatro Massimo Bellini di Catania in prima mondiale assoluta il 23 settembre 1992, in occasione del IV Festival Belliniano. L'esecuzione venne registrata dalla Casa discografica Nuova Era.
Moltissime le sue partecipazioni e interventi in congressi musicologici, fra cui il convegno belliniano di Siena del 2000 e la conferenza belliniana organizzata a Stoccolma dall'Assessorato Regionale alla Cultura nel dicembre 2001. Nello stesso anno riceve il premio “Kaliggi d'Oro” ed il premio “Luigi Capuana” di Acireale patrocinato dal Giornale dell'Etna. Ha redatto anche le note illustrative per la prima esecuzione assoluta degli abbozzi dell'Ernani (opera incompiuta di Vincenzo Bellini), incisi nell'aprile 2003 dalla casa discografica Bongiovanni di Bologna. Nel medesimo CD curato dal target felsineo si trovano anche la Sinfonia dell'incompiuto melodramma ed il terzetto “Ombre pacifiche”.
Nel 2008 ricevette l'ambito premio internazionale Bellini d'Oro assieme a Cecilia Bartoli e Maria Malibran (alla memoria) e nello stesso anno è stato anche insignito della Medaglia al valore del Teatro Bellini di Catania assegnatagli dal Sovrintendente dello stesso, Avvocato Antonio Fiumefreddo. De Meo per l'occasione venne premiato assieme al prefetto di Catania dott. Giovanni Finazzo. Negli ultimi suoi anni di vita ha continuato la sua instancabile attività di filologo belliniano. Si è spento serenamente sulle amate partiture belliniane il 15 ottobre. Con lui il mondo della musicologia perde un personaggio di indubbia rilevanza culturale, mentre chi scrive perde anche un amico fidato, onesto, schietto e corretto!
Giovanni Pasqualino
Giuseppe Perrotta
Recita un'antica sentenza: «Padre Modesto non diventò mai Priore», intendendo con ciò che timidezza e riservatezza, se eccessive e paralizzanti bloccano e impediscono ogni realizzazione pratica ed ogni azione umana. Forse nessuna sentenza è mai stata più pertinente e adatta alla vita e all'opera di colui che fu certo uno dei musicisti più sfortunati della nostra terra e che risponde al nome di Giuseppe Perrotta. Nato a Catania, in via Garibaldi, il 19 marzo del 1843 dall'avvocato Emanuele Perrotta e da Giuseppa Musumeci, il giovane futuro compositore si dedicava alla musica per diletto (la sua formazione fu da autodidatta) e anche per passione, ma per non deludere le aspettative paterne, come tanti figli ubbidienti di quell'epoca, si dedicò agli studi giuridici, laureandosi in legge presso l'Università etnea nel 1862. Nello stesso anno convolerà a nozze con Antonina Ardizzoni Carbonaro, che gli darà due figli. Il suo carattere schivo ed il suo stato di giovane padre di famiglia gli impediranno di viaggiare, a differenza degli amici artisti e letterati suoi conterranei Giovanni Verga, Luigi Capuana, Federico De Roberto, Mario Rapisardi, Francesco Paolo Frontini e soprattutto di promuovere, caldeggiare e divulgare le sue composizioni. Si recò solo una volta a Milano nel 1879, su sollecitazione di Verga e Capuana, ma nonostante le calorose accoglienze ricevute dal mondo musicale ambrosiano ritornò subito nella sua città. In seguito Perrotta rimase vedovo, cosa che presumibilmente gli provocò uno stato di profonda tristezza e depressione. Pertanto si ritirò gli ultimi anni della vita nel suo villino di Cibali con i figli e la madre, abbandonando la composizione musicale e morendo suicida nel 1910. Il musicista catanese diede vita a tre opere liriche: Bianca di Lara su libretto di Stefano Interdonato; Il trionfo dell'amore su testo originale dell'omonima fiaba in versi di Giuseppe Giacosa; Il conte Yanno su libretto di Ugo Fleres. Nessuna di queste partiture fu mai rappresentata e certamente anche in questo caso il carattere ostico, poco comunicativo ed austero del musicista avrà avuto il suo peso, assieme certo alla non eccezionale valenza artistica delle opere. Il suo grande e solerte amico Giovanni Verga lo incaricò, certo per aiutarlo e incoraggiarlo, un preludio per piccola orchestra da anteporre al dramma «Cavalleria Rusticana» che andava in scena a Milano, ma la partitura, giudicata di difficile comprensione, venne scartata. Tuttavia l'anno seguente venne riproposta all'arena Pacini di Catania, esattamente il 29 luglio del 1886, ottenendo un buon successo di pubblico e di critica, così come riporta ed evidenzia il Corriere di Catania dell'epoca. Il musicista fu anche autore di musiche da camera, pianistica e vocale.
Il periodico di cultura siciliana «Agorà» ha voluto commemorare alla fine di questo 2010 il centenario della morte del compositore etneo offrendo ai suoi lettori in allegato alla rivista n. 35 un volume biografico ed un CD di sue musiche al prezzo davvero popolare di Euro 7,50. Il libro scritto con estrema cura e perizia da Elio Miccichè si rivela quanto mai esaustivo riguardo non solo la vita e le opere del Perrotta ma anche del milieu artistico e culturale col quale interagì. Il testo si avvale anche di una illuminante prefazione di Roberto Carnevale, il quale coglie acutamente nelle creazioni del «Solitario di Cibali» ascendenze ed arditezze armoniche tipicamente wagneriane. Un ricco apparato epistolare, fotografico ed iconografico, nonché una veste tipografica elegante, rendono la pubblicazione degna di stare nella biblioteca di ogni storico della musica ed appassionato di storia patria.
Il CD contiene 6 Romanze per voce e pianoforte: «Aura», «Gentile», «Idol mio», «Abbandonata», «O fior della pensosa sera» «Cuor morto», «La luna dal rotondo volto», eseguite egregiamente dal soprano Stefania Pistone, accompagnata al pianoforte dalla brava Alessandro Toscano. I pezzi per pianoforte solo: «Ouverture per Cavalleria Rusticana», «Preludio dallo Stabat Mater di Pergolesi», «Preludio in mi bemolle maggiore da Otium», e «Barcarola n. 3 senza parole» sono eseguite con garbo e buon gusto da Mario Spinnicchia.
Giovanni Pasqualino
13/2/2011
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