RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

Il braccio, la mente

I due spettacoli diretti da Emma Dante e Serena Sinigaglia, registe rispettivamente di Cavalleria Rusticana e Pagliacci, costituiscono un'operazione artistica solida e densa di significati: provocano grande soddisfazione allo spettatore e forse, ahimè, troppo compiacimento al recensore.

Al Teatro Comunale di Bologna la recita del 18 dicembre é la terza delle sette repliche di questo 2x1 verista, che se non ben declinato potrebbe apparire come un brutto compendio del programma di italiano di quinta superiore. Invece in questo caso abbiamo uno spettacolo in cui carattere intellettuale e costruzione formale hanno sì la meglio sulla sfera musicale, ma sono architettati attraverso gusto moderno e una pulizia assoluta. Non sappiamo quanto le due registe si siano parlate o se ci sia stato un accordo a monte: fatto sta che le due opere messe insieme risultano un concentrato di ventunesimo secolo, un castello costruito sulle solide fondamenta del verismo, che si sviluppa intrecciando la propria struttura lessicale con il linguaggio cinematografico e sublima in riflessioni che si rifanno al teatro minimalista e al metateatro.

A segnare un ideale punto di partenza per lo sviluppo delle interpretazione registiche, c'é la moltitudine, l'umanità brulicante, elemento fondante della ricerca verista; all'interno di questa moltitudine che vive, lavora, ama e commette delitti, si compie l'autentica operazione verista quando su alcuni dei personaggi viene posta una lente e si sceglie di portarli in superficie, distinguendoli dalla massa. Si potrebbe affermare quindi che ciò che accomuna le due opere é questa visione, un galleggiamento di alcuni sopra tutti; e questi tutti, nell'astrazione scenica, non possono che essere i componenti del coro. Alberto Malazzi é il primo dei professionisti che citiamo in queste righe, poichè gli va attribuito il merito di una preparazione del coro davvero egregia, in grande equilibrio con la direzione musicale e, più ancora, con le dinamiche di scena.

In Cavalleria questo coro é una nuvola di persone vestite di nero che si muove con la disinvoltura della gente a spasso in un sabato pomeriggio e con la meticolosità di una intelligente coreografia, ideata da Manuela Lo Sicco, curata fin nel minimo dettaglio e ricca di spunti geniali. La moltitudine é scura, l'intera messinscena è fondata sull'oscurità: immagini al sole che appaiono e scompaiono da un fondale profondissimo che sembra inghiottirsele e restituirle al palco ciclicamente, con eccezionali movimenti scenici, di una fluidità e una coordinazione meravigliose. La scelta di organizzare la scena su semplici elementi mobili, un balcone e due scalinate simmetriche assemblate con grande maestria compositiva ad opera di Carmine Maringola, colgono nel segno, esaltando la semplicità della trama e ponendo i protagonisti sotto un'ulteriore lente narrativa. Su tutti svetta la Santuzza di Veronica Simeoni, grande smalto e interpretazione passionale per vocalità e doti mimiche. Lola, Alessia Nadin, é invece leggermente sovrastata dall'orchestra e il personaggio, che dovrebbe traboccare di sensualità, risulta spesso appannato. Buoni I due personaggi maschili, con un Turiddu, Roberto Aronica, di grande agilità vocale e tecnica, capace di andare a scovare una fragilità accennata ed efficace ricorrendo a leggere e dosate incrinature, collocate nei passaggi giusti; Alfio é Dalibor Jenis, vocalmente di proporzioni statuarie ma a volte costretto nei registri più bassi e nelle dinamiche più delicate. Lucia è una brava Agostina Smimmero, physique du rôle, voce complessa e colorita, chiarissima nella dizione. La prova dei cantanti, ottima nel complesso, risulta quindi in grande equilibrio con una dinamica di scena semplice – ma il lavoro di cesello é evidente – e di grande impatto, tutta costruita su immagini forti e ritagliate dalla luce, tra le quali la regista inserisce attraverso un'intima conoscenza della sicilianità, composizioni religiose che rimandano ai tableaux vivants: chi è più competente di noi in storia dell'arte ci ha ritrovato, a ragione, il celeberrimo Compianto di Niccolò dell'Arca, che manco a farlo apposta é custodito a Bologna, nella chiesa di Santa Maria della Vita; volendo invece attingere al cinema, come già accennato, a noi ci é parso evidente un rimando a Pasolini e alla sua Deposizione di Volterra, capolavoro di Rosso Fiorentino riproposto ne La Ricotta (1963) in versione vivente.

E forse é il cinema l'arte che può aiutarci meglio a legare, almeno in questo breve articolo – fa capolino una punta di compiacimento, perdonateci – queste due opere teatrali, proiettate in sequenza come fossero due cortometraggi contenuti nello stesso film, analogamente a quelle opere collettive in voga in Italia negli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso. Se Cavalleria ha la schiettezza e il ricorso a soluzioni formali tipiche di Pasolini – ma i riferimenti potrebbero essere innumerevoli – Pagliacci ci ha ricordato Paul Thomas Anderson per la fluidità della dinamica e l'abilità nell'uso di contenitori e contenuti (Boogie Nights, Magnolia), mentre, sul piano formale, abbiamo ritrovato molto dell'umile e umanissima semplicità de La Notte di San Lorenzo, dei fratelli Taviani. Nel Prologo la regista sceglie di costruire a poco a poco la scena e di farci entrare dolcemente nel realismo di una campagna secca ed assolata, realizzata con grandissima tecnica da Maria Spazzi e Claudio de Pace, quest'ultimo autore del disegno illuminotecnico; Dalibor Jenis, smesse le vesti di Alfio, ci propone un Tonio in grande smalto, disinvolto tra i complessi movimenti di attrezzature e macchinisti impegnati a disseminare il palco di spighe di grano e papaveri. Stefano La Colla, forte di una vocalità prorompente e ricca di colori, é un Canio efficace nei passaggi che necessitano di fisicità e possenza, meno quando si richiede una certa delicatezza sul piano mimico. La Nedda di Carmela Remigio, di grande intensità emotiva, inciampa a tratti sulla fluidità del canto, mentre la gestualità, soprattutto fuori dal personaggio di Colombina, non risulta sempre incisiva. Paolo Antognetti, nei panni di Beppe, dà una grandissima prova vocale e attoriale quando si cala nei panni di Arlecchino, mostrando qualità istrioniche e un'agilità degne di un Figaro. Imponente per struttura fisica e voce, Vittorio Prato demanda al canto quello che sul piano mimico appare leggermente opaco, insistendo forse un po' troppo sul portamento aitante e trascurando altre sfumature caratteriali.

Messa da parte la soddisfazione che lo scrivere intorno ad uno spettacolo di questo tipo può regalare, ci accingiamo a concludere, andando al sodo. Tra le mille suggestioni e chiavi di lettura che abbiamo dovuto scartare per motivi di spazio e scarsezza di tempo, ci sentiamo di conservarne una, e qui proporla, che più che altro é una sensazione di quello che alla fine rimane.

Gli uomini, che usano il coltello, a volte anche nella realtà.

Le donne, che usano la testa, sempre.

Giovanni Giacomelli

20/12/2019

Le foto del servizio sono dello Studio Casaluci.