Calder e Kentridge al Teatro dell'Opera
Le onde del destino
“Così per tutta l'eternità quelli che reputano il mondo un sistema ordinato dovranno confrontarsi con coloro che lo ritengono un mostruoso caos”, scrive Friedrich Dürrenmatt in quella geniale e irriverente rilettura del mito greco che è La morte della Pizia. Un'affermazione che ben potrebbe introdurre il lavoro di William Kentridge, Waiting for the Sibyl, presentato al Teatro dell'Opera di Roma insieme a Work in progress di Alexander Calder, a formare un dittico di particolare interesse. La cifra stilistica dell'artista sudafricano modella un mondo del tutto peculiare, nel quale un lirismo struggente convive con la più graffiante ironia. La sua ricerca artistica, spiccatamente teatrale, si trova perfettamente a proprio agio sul palcoscenico, antitesi della staticità museale. Il punto di partenza dello spettacolo, l'immagine di una sibilla contemporanea incapace ad afferrare la realtà che le vortica intorno, è lo spunto per una profonda meditazione sul nostro tempo.
“La gente dice sempre verità approssimative […]. Forse perché gli uomini stessi sono soltanto qualcosa di approssimativo. Maledetta imprecisione”, scrive ancora Dürrenmatt nel libro già citato. T.S. Eliot aveva posto ad epigrafe della Waste land l'immagine della Sibilla Cumana, immortale ma non esente dalla vecchiaia, desiderosa di morire, emblema di un'umanità fallace e decrepita. Il vento scompagina le predizioni che questa affida alle foglie di quercia, mescolando irrimediabilmente i destini degli uomini. Un dinamismo accentuato dall'impronta inconfondibile di Kentridge. Disegni a inchiostro interagiscono con i protagonisti, cinque danzatori e quattro vocalists, intessendo immagini che si creano e si dissolvono a un ritmo vorticoso, altrettanti simboli dell'effimero. Una serie di sedie dall'equilibrio precario mostra l'incertezza che governa le nostre vite. La parola scritta, come di consueto, è onnipresente. Brevi frasi si mostrano ai nostri occhi, compaiono e scompaiono, per poi presentarsi di nuovo a stimolare l'anima dello spettatore. “Nessuno dei nostri sogni si è avverato”, si dice a un certo punto. Le utopie del passato sono definitivamente estinte. L'uomo è solo di fronte a una realtà indecifrabile. Kentridge costruisce una drammaturgia perfetta, sostenuta da una complessa partitura dove le voci agiscono su una musica registrata (bravissimi a tale proposito tutti i protagonisti). Il mistero, sostanza del mito, diviene più prosaicamente un algido algoritmo, al quale affidiamo il nostro destino.
Un percorso appositamente pensato per innestarsi in maniera organica sulla drammaturgia di Work in progress, storica performance ideata da Alexander Calder e rappresentata al Costanzi nel lontano 1968. Compito di Giovanni Caradente e Filippo Crivelli far rivivere e coordinare le immagini partorite dalla fervida fantasia dell'artista statunitense, che egli stesso definì in maniera significativa: “la mia vita in diciannove minuti”. Calder crea uno spazio onirico, nel quale evocare la magia del proprio universo, un collage visivo costituito da parti eterogenee, al quale fanno da contrappunto le musiche registrate di Maderna, Clementi e Castiglioni. Spicca il carattere ludico della rappresentazione, un'esperienza immaginifica colma di divertimento e inventiva. Percorsi imprevedibili ne tracciano le coordinate, come quando un gruppo di ciclisti traccia strani cerchi sul palcoscenico. Paesaggi marini e universi stilizzati emergono dalle profondità dell'inconscio, come fantasmi chiamati da un apprendista stregone. Palchi vuoti ma platea piuttosto gremita. Applausi di circostanza per Calder, come se l'elettronica del Novecento non fosse ancora stata digerita completamente dal pubblico, mentre un consenso molto più convinto ha salutato la creazione di Kentridge, fra l'altro presente in sala.
Riccardo Cenci
12/9/2019
Le foto del servizio sono di Stella Olivier (Waiting for the Sibyl) e Yasuko Kageyama (Work in progress).
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