Così lontani, così vicini
Separata da soli – ma risolutivi, o per meglio dire esiziali – quindici anni, Lo zar si fa fotografare di Kurt Weill (1928) e La saggia di Carl Orff (1943) testimoniano due momenti radicalmente diversi del Novecento tedesco. Il primo, con la sua oretta scarsa di musica, come suggerisce il titolo non vuol essere nulla più d'una sapida istantanea, che coglie in un rapido flash gli umori satirici della Zeitoper e, con essi, i fertili sperimentalismi stilistici della Repubblica di Weimar; mentre il più disteso atto unico di Orff ci catapulta in anni per l'umanità disastrosi e per la Germania aberranti, ma dove il flusso implacabile della Storia resta cristallizzato dietro la facciata di una favola dei fratelli Grimm. Ovviamente pure gli autori si collocano ai rispettivi antipodi, quanto a parabola intellettuale e umana: Weill eclettico, eterogeneo, portato a flirtare con il genere “leggero”; Orff umanista, classicista, con la sua bussola nell'arte medievale e nell'antichità greco-latina. Ma soprattutto l'uno ebreo, in fuga dalla Germania hitleriana e destinato a trovare un Eldorado negli Stati Uniti, a prezzo però di uno sradicamento culturale irreversibile; l'altro ariano, serenamente convivente con il regime e, semmai, propenso a quel concetto di “emigrazione interna” – poi elaborato da Frank Thiess – atto a difendere le ragioni degli artisti che cercavano di mantenersi estranei al nazismo pur restando in patria.
Riunirli in una stessa serata, come ha fatto l'Opera di Francoforte in questa sua nuova produzione, non significa però solo dar vita a un dittico apparentemente azzardato (tanto più che gli abbinamenti canonici ci sarebbero: sotto il segno del medesimo librettista, il satirico-espressionista Georg Kaiser, Weill aveva concepito Der Zar lässt sich fotografieren in tandem con Der Protagonist, composto l'anno prima; mentre, per quanto riguarda Orff, la comune matrice dei fratelli Grimm ha portato Die Kluge a un legame con Der Mond, che per il pubblico tedesco è immarcescibile quanto per gli italiani lo è quello tra Cavalleria e Pagliacci). Lo spettacolo, infatti, ha un'impaginazione che scompagina certezze estetiche consolidate e apre nuovi orizzonti sull'Orff della Kluge , individuando un retroterra quasi brechtiano che, per ciò stesso, crea un ponte con Weill. Sul versante opposto, invece, il messaggio politico della Zeitoper weilliana viene lasciato svaporare – come, a un secolo di distanza, è inevitabile con i lavori nati per fotografare lo spirito del proprio tempo – in favore di un meccanismo farsesco meno impegnato ma pure meno effimero, che si riconnette alla “perennità” comica dell'antisperimentalismo di Orff: e le parentele aumentano grazie a una messinscena che sottolinea bene come nell'uno e nell'altro titolo ogni personaggio sia frutto di una tipizzazione, mai di una psicologizzazione.
Forse solo l'occhio esterno di un regista non tedesco poteva riuscire in quest'intento. Ne siamo debitori all'inglesissimo Keith Warner, che, senza rinunciare a un tocco british (i poliziotti solerti e ridicoli, che vigilano sullo Zar eponimo come sul Re della Kluge), scompagina i confini tra sketch politico e fiaba, dando vita a uno spettacolo di forte evidenza teatrale a cominciare dal capillare lavoro sul corpo e la gestualità degli interpreti, grazie a cantanti che sono innanzi tutto artisti duttilissimi. Teatro del fallimentare attentato contro uno Zar più gaudente che tirannico, lo studio fotografico in cui si dipana la frenetica azione del primo titolo viene ricostruito, nella bella scenografia di Boris Kudlicka, da un emiciclo puntellato di finestre, che da chiuse mostrano i ritratti dei potenti d'ogni epoca, mentre da aperte vedono affacciarsi le teste ghignanti e mortuarie dei coristi che commentano l'azione. Macabro senza prendersi sul serio, il siparietto prosegue scoppiettante con i tableaux vivants dei tirannicidi di ogni epoca – da Cesare ai Romanov – e le avances erotiche dello Zar che si abbassa i pantaloni davanti all'attentatrice spacciata per fotografa, mentre con Orff tutto si fa più astratto e geometrico, in una girandola di porte nel solco del miglior teatro “povero” e “materico”. Fino a un epilogo all'insegna della più suggestiva liaison des scènes, con il Re e la saggia sposa che si allontanano visti di spalle attraverso il diaframma di un obiettivo fotografico: ultimo rinvio, nell'apologo orffiano, all'ambiente dell'atto unico di Weill.
Ottimamente servita dagli strumentisti dell'Opera di Francoforte, la taiwanese Yi-Chen Lin dirige mostrando forse maggior empatia con le iridescenze timbriche della Saggia che con gli “strappi” ritmici dello Zar, ma ottenendo in entrambi i casi esemplare nitore fonico e variegata articolazione di fraseggio. In palcoscenico agiscono invece una quindicina di formidabili cantanti-attori. Su tutti spicca, nella Kluge, il giovane soprano Elizabeth Reiter: saggia, sì, ma senza rinunciare a una fanciullesca monelleria; e con il viatico di un'emissione calibratissima a tutte le altezze, nel registro acuto che configura la sposa-bambina come in quello medio-basso, specchio della superiore ragionevolezza del personaggio. Notevoli poi i due baritoni chiamati a dar voce ai potenti: più morbido e scorrevole lo Zar di Domen Križaj, più spigoloso e declamatorio il Re di Mikolaj Trabka, assai icastici entrambi. Mentre la seduttività parodistica di Juanita Lascarro (attentatrice e falsa fotografa in guêpière) e la sensualità sottopelle di Ambur Braid (la vera fotografa, ribollentemente masochista quando sequestrata dagli attentatori) vengono messe al servizio d'una vocalità l'una da puntuto soprano leggero, l'altra da denso lirico-spinto.
Impossibile citare tutti gli altri interpreti, spesso ricorrenti in entrambe le opere. Restano nella memoria la tenorilità limpida e svettante di Aj Glueckert nelle geremiadi dell'asinaio nella Saggia ; il talento da “commedianti vocali” di Patrick Zielke e Sebastian Geyer; un illustre veterano come Alfred Reiter, che trascolora dalla parodistica imperturbabilità della guardia del corpo dello Zar al macchiettone medievale del carceriere nella Kluge (qui vestito come la Morte nel Settimo sigillo di Bergman). Mentre il terzetto dei vagabondi – per Orff quasi un aggiornamento dei fools scespiriani – trovano sapidi accenti e atleticità attoriale in Andrew Bidlack, Dietrich Volle e soprattutto Iain Macneil: autentico baritono-saltimbanco, se mai ve ne furono.
Paolo Patrizi
11/5/2023
Le foto del servizio sono di Barbara Aumüller.
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