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Valencia

Cavalleria-Pagliacci, la coppia inossidabile

Il Palau de les Arts ha fatto di tutto per portare a termine la stagione. Perfino un Falstaff saltato per la pandemia è stato ricuperato al posto di un Tristan cancellato per forza di cose. L'ultimo titolo erano le famose opere in un atto compagne di vita fino a poco fa quando certe volte c'è stata una separazione o un nuovo e meno felice connubio con altri titoli brevi. Segno dei tempi. Così come adesso pare d'obbligo inventarsi qualche particolarità registica. Ad Amsterdam Carsen invertiva l'ordine tradizionale, a Barcellona Michieletto univa – in modo parecchio riuscito – entrambi i soggetti. Io continuo a preferire l'allestimento di Martone visto alla Scala. Qui si riprendeva lo spettacolo di Giancarlo Del Monaco (ad opera di Allex Aguilera) e non direi che l'abbia trovato molto interessante. La prima cosa che ho trovato sbagliatissima è piazzare il prologo di Pagliacci a inizio spettacolo come dichiarazione programmatica. A parte che appartiene al secondo titolo cozza con il preludio di Cavalleria in tutti gli aspetti. Poi, e non so se sia stata questione di covid, far cantare il coro dalla sala è una scelta sciagurata (con mascherina sì, ma senza distanza come di dovere) perché il magnifico coro – in ambasce, a quanto pare da bigliettini lanciati a fine spettacolo – preparato da Francesc Perales suonava inevitabilmente come se cantasse il Requiem di Verdi piuttosto come nel 'Dies irae' e lo sbilancio con il palcoscenico era palese (non c'è cantante al mondo che riesca a farsi sentire nell'Inno di Pasqua in questa situazione), ma pensando al virus, perché moltiplicare i pericoli con dei figuranti – molto bravi, certo – sul palcoscenico (e non penso solo ai costi)?

Potrei seguitare con problemi tra scena e testo (i cori iniziali vengono illustrati con una processione di penitenti, l'inno di resurrezione invece con una salita al Calvario). Poi ho pensato ai Greci della guerra del Peloponneso prigionieri nella latomie di Siracusa con quei blocchi di marmo bianco azzeccanti come sola scena. Pagliacci era invece più tradizionale e un Tonio così cattivo e volgare – ma va bene – non l'avevo visto mai.

Sonia Ganassi ha cantato bene (qualche acuto al limite è normale per un mezzosoprano) e tranne qualche frase (la meno felice a te la mala Pasqua), la sua Santuzza era l'aspetto più interessante dell'opera di Mascagni; va salutato e valutato come merita il fatto che compare sul palcoscenico dalla prima nota del preludio e ci resta fino all'ultima – dove cantano lei e Lucia in modo assurdo hanno ammazzato compare Turiddu!. Il baritono Misha Kiria non ha gli acuti di tradizione per il prologo e sembra al limite perfino nell'aria di Alfio e nel duetto con Santuzza. Voce timbrata ma emissione sempre in gola. La cosa migliore è venuta dopo il duetto con Nedda dove pure l'intonazione era in forse. Poco o niente interessanti le voci di Maria Luisa Corbacho (Mamma Lucia) e Amber Fasquelle (Lola), interpreti corrette. Nei Pagliacci Ruth Iniesta cantava bene la balatella e altri momenti, ma il recitativo e certe frasi sono ancora troppo per un soprano liricoleggero come credo sia questa brava cantante ancora oggi. Molto adeguata come interprete. Interessante il Beppe di Joel Williams. Da rilevare due giovani cantanti, Jorge Franco e Max Hochmutg, dal Centre de Perfeccionament del Teatro. Di dovere parlare qui e ancora di Helga Schmidt, la vera anima di questo Teatro (non importa se alla fine usata da capro espiatorio di errori e corruzione altrui) che si dava molto e bene da fare per questo centro per il quale – guarda caso – è stata lei a scegliere e a dare prima piccole parti e poi altre più importanti a un allora sconosciuto Mattia Olivieri. Sarebbe stata molto felice – come spero lo sia stato anche lui – di vederlo trionfare sullo stesso palcoscenico nel ruolo non lunghissimo ma importante di Silvio. Il percorso da allora fino ad oggi può considerarsi chiara prova di quanto fruttino la serietà, lo studio, l'incorporazione magari lenta di ruoli adatti. Sempre un attore di razza, il cantante dà ancora un esempio di saggia maturazione rispetto della sua interpretazione del personaggio (scenicamente più azzeccata allora, ma si trattava chiaramente dell'allestimento). La voce in crescita, timbro sempre più brunito, omogeneo, senza tensioni negli estremi, con delle belle sfumature e piani: ad maiora .

Jorge de León ha certo una voce importante e poi non è da nulla cantare due ruoli così pesanti. Purtroppo insiste nel far sentire il suo acuto e le corone sono abituali (e non sempre finiscono in bellezza). L'attore è limitato ma efficace, con il risultato che, grazie alla regoa, il suo Turiddu è davvero disgustoso (non che sia un bel tipo). Canio mi pare più adeguato per l'attore e il cantante, ma un canto sempre di forza alla fine risulta monotono e certo non aiuta urlare alla fine Nedda! Nedda! e piangere abbondantemente. Allora meglio gli Infamia! Infamia! ed i singhiozzi dopo Vesti la giubba, così criticati – oggi – di tale Beniamino Gigli. Al pubblico che gremiva la sala, entro le limitazioni tipiche di oggi, non è parso sicuramente così perché esplodeva in ovazioni. Rivolte anche per fortuna a chi forse le meritava più di tutti, il direttore Jordi Bernàcer. Anche con il vantaggio che l'orchestra continua a essere tra le migliori compagini spagnole (non solo per la lirica, e per i concerti sinfonici la reputo ancora la migliore), il giovane maestro ha saputo esprimere bene lo spirito contrastante dei due titoli (forse in Cavalleria la buca era troppo presente in alcuni momenti, ma con la disposizione del coro era quasi d'obbligo).

Jorge Binaghi

11/6/2021

La foto del servizio è di Miguel Lorenzo.