Das Liebesverbot
al Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Sfizioso, ma si potrebbe affermare coraggioso, il titolo scelto dalla Fondazione Teatro Lirico “G. Verdi” per l'apertura della stagione: Das Liebesverbot (Il divieto d'amare) di Richard Wagner. Salvo errori di chi scrive l'opera, la seconda in ordine cronologico del catalogo wagneriano, in Italia è stata rappresentata solo una volta a Palermo nel 1991. In effetti, lo spartito fu ripudiato dallo stesso compositore e mai rappresentato durante la sua vita, in seguito salvo sporadiche occasioni più che per curiosità, come nel 1983, centenario della morte, che fu proposto da Wolfgang Sawallisch.
Richard Wagner dopo aver intrapreso in modo discontinuo gli studi musicali, nel 1830 si dedica seriamente a questa disciplina a Lipsia. In seguito ad alcuni lavori giovanili (fra cui una sinfonia), ottiene la nomina a direttore del coro del teatro di Würzburg, nel 1833, che gli offre la possibilità di ricoprire saltuariamente diverse cariche teatrali tra cui anche il direttore d'orchestra. È qui che compone la sua prima opera Die Feen dall'impianto melodico e armonico poco definito, con forti influenze dello stile di Weber. Si sposta in seguito a Magdeburgo, dove svolge l'attività di direttore musicale ed è qui che nel biennio 1834-36 compone l'opera in oggetto che fu rappresentata nel teatro locale il 29 marzo 1936. Fu un fiasco clamoroso: la platea era quasi vuota, il protagonista si dimenticò la parte e dovette improvvisare. Ancora più assurda fu la seconda rappresentazione, interrotta ancor prima che salisse il sipario a causa di una rissa scoppiata dietro le quinte fra un cantante e il marito della primadonna per motivi di gelosia.
Già ad un primo ascolto si evince che trattasi di un lavoro giovanile, tesi valida per molti altri compositori, con tutti i limiti del caso, la musica appare ricalcata su modelli noti, von Weber e Beethoven, e fuori dall'ambito tedesco ad Auber, Meyerbeer e il prediletto Bellini. Siamo dunque ben lontani dal concetto con il quale è riconosciuto Wagner: un romantico riformista del teatro ove il pensiero musicale è sintesi delle arti poetiche, visuali, musicali e drammatiche.
Das Liebesverbot è una grande opera comica in due atti tratta da Measure for Measure di William Shakespeare, il cui tema centrale è l'ideale di un eros libero, non soppresso dentro una rigida moralità e un acceso bigottismo, tema tra l'altro utilizzato anche in seguito da Wagner. In Liebesverbot, essendo commedia, il finale è lieto e l'espressione della frenetica sessualità ha il dominio nel carnevale orgiastico cui si abbandonano tutti i protagonisti, nella contrapposizione iniziale tra la rigidità quasi teutonica di Federico e l'appassionata spontaneità dei concittadini ispirata a convenzioni all'italianità. È sicuramente un Wagner “atipico” rispetto al più conosciuto, ma mostra una buona melodia, verve ed impulso ritmico che saranno abbandonati presto.
Il regista Aron Stiehl, a Trieste ripreso da Philipp M. Krenn, considerata la strampalata drammaturgia risolve la sua lettura in chiave ironica individuando la doppia posizione degli individui nella controversa ambiguità tra lussuria e moralismo, eccessi forse sfrenati e un autoritarismo ferreo. Ecco dunque la scena, di Jurgen Kirner, suddivisa in due da una bianca parete movibile: da una parte il mondo degli eccessi, dall'altra quello austero composto di una serie di cassettoni i quali sembrano veri e propri loculi cinerari. Con questi presupposti la marcia avviata è quella del grottesco e del surreale, che in varie occasioni è anche divertente, in molte altre è poco chiaro e banale. Anche il costumista Sven Bindseil si diverte a sfoggiare sia abiti austeri sia eccentrici costumi stile figli dei fiori anni '70 con tanto di una parodia di Conchita Wurst. Oltre quel limite ma nel complesso non disturba e spesso fa sorride, anche se trattasi di una tipica regia “alla tedesca”, la quale non convince pienamente ma non si colloca nella sezione astrusa spesso programmata oltralpe.
Sul versante musicale abbiamo avuto in Oliver von Dohnanyi un concertatore solido e di buon mestiere capace di estrarre dall'orchestra locale un buon suono e un'appropriata melodia seppur con mano robusta e sovente un po' pesante. Encomio al Coro, istruito da Paolo Vero, che ha fornito prova di ottima professionalità e capacità sceniche rilevanti, tanto era impegnato nel contesto registico.
Eguale merito va elargito a tutta la compagnia, anche se dal punto di vista vocale necessitano i doverosi distinguo. La migliore del cast era il soprano Lydia Easley, Isabella, soprano dotata di voce importante e piena ma anche drammatica, capace di piegare il prezioso mezzo in acuti fulgidi, accenti di rilievo, e una sicurezza interpretativa di gusto plauso. Assieme a lei anche l'altro soprano, Anna Shoeck, di brillante e precisa vocalità.
Meno incisivo il Friedrich di Tuomas Pursio, che pur senza sfigurare non ha sufficiente musicalità e spessore insinuante. Le parti deboli del cast erano rappresentate dai due tenori: Mark Adler, Luzio, e Mikheil Sheshaberidze, Claudio. Il primo pur con voce chiara aveva difficoltà di tenuta nel dosaggio dei fiati, risultando spesso in affanno; il secondo era molto limitato nel registro acuto e la zona centrale era piuttosto monocorde.
Reinhard Dorn era un simpatico e frizzante Brighella di ottima resa canora. Bravissima scenicamente Francesca Micarelli, Dorella, e puntuale vocalmente anche se non dotata di timbro seducente. Completavano il cast con ottime prestazioni: Gianfranco Montresor (Angelo), Cristiano Olivieri (Antonio), Piero Toscano (Danieli) e Federico Lepre (Ponzio Pilato).
Teatro non esaurito, la recita era nel mezzo delle feste, ma piuttosto gremito da un pubblico anche giovane che al termine ha tributato un caloroso successo a tutta la compagnia.
Lukas Franceschini 14/1/2015
Le foto del servizio sono di Fabio Parenzan.
|