A Piacenza, due Foscari di lusso
Ultimo appuntamento al Municipale di Piacenza prima della pausa estiva, I Due Foscari trionfano grazie a un cast di prim'ordine, con numeri che sfiorano il tutto esaurito sia alla prima di venerdì 3, sia alla replica di domenica 5 maggio 2024, di cui si dà conto. Un pubblico giustamente in visibilio per artisti di prima grandezza e di carriera internazionale, che nulla ha da invidiare a piazze più blasonate: anche perché i nomi sono gli stessi…
Né d'altronde potrebbe essere diversamente. I due Foscari, dall'omonima tragedia di George Gordon Byron (Roma, Teatro Argentina, 3 novembre 1844), è il sesto titolo di Verdi e uno degli esiti più felici degli “anni di galera”, seconda collaborazione con Francesco Maria Piave che, dopo il successo di Ernani , ritenta l'esperimento di una disposizione vocale anomala per l'epoca, o quantomeno poco frequente, il trio tenore-soprano-baritono osteggiati dal basso; con una sfida in più: mentre in Ernani era tutto «molto fuoco, azione moltissima, e brevità», nei Foscari la brevità c'è, i tre atti scivolano via come niente; il fuoco anche, seppur moderato; l'azione no. O meglio, c'è, ma si concentra quasi tutta al terzo atto: la regata, la partenza di Jacopo e la detronizzazione di Francesco, con la morte di padre e figlio a pochi minuti l'una dall'altra e con Lucrezia che, parafrasando, in servitude a piangerli rimane. Un'impostazione che riflette il carattere della fonte, fatta più per esser letta che rappresentata. Va da sé che, in mancanza di azione, gli interpreti devono vieppiù impegnarsi sul fronte dell'espressività…
Ed è qui che entra in gioco il cast di cui sopra. La produzione annovera Luciano Ganci quale Jacopo Foscari: uno Jacopo dipinto come vittima designata, ma che pur arrendendosi alla sorte, deplora la sua condizione, la vive con malinconia, dando forma scenica al tema che per lui sceglie Verdi, il solo di clarinetto non a caso già citato nel Preludio, ma non si umilia: al contrario, il suo piglio è vitale sino all'ultimo. Lo Jacopo di Luciano è perciò malinconico ma fiero, in grazia di una voce solida, lirica e piena, che riempie il teatro, di pregevole squillo, adatta a ruoli primoverdiani e donizettiani (e non solo), in grado di elargire acuti argentei come pure mezze voci ben sfumate (anche se a tratti un po' incolori). Apprezzabile, tra le altre cose, la cabaletta del primo atto, Odio solo, ed odio atroce, con la quartina su «serra» ben sgranata, che già prelude alla futura Di quella pira, e dinamiche variate nella ripetizione, prima forte e poi piano, dove il piano risulta quasi più espressivo del forte, come se, volendo offendere i patrizi, dovesse farlo a denti stretti… Tutto il secondo atto è molto ben sostenuto, l'allucinazione del Carmagnola e le scene d'assieme che seguono: ma è in All'infelice veglio… Ah, padre, figli, sposa, lo struggente addio prima della partenza, che raggiunge vette di commovente pathos
. Alla prevista Marina Rebeka, obbligata a cancellare l'impegno per motivi di salute, è subentrata Marigona Qerkezi nel non facile ruolo di Lucrezia Contarini. Tant mieux per il pubblico piacentino, graziato da cotanta artista, e chapeau a Cristina Ferrari, direttrice del Municipale, per averla ingaggiata. Nativa di Zagabria, di origini kossovare, classe 1993, Marigona condivide con Jacopo-Ganci l'atteggiamento di arrendevolezza, pur in contrasto, in questo caso, col tema che Verdi inventa per lei, scattanti e rabbiose terzine agli archi che danno realmente l'idea che debba entrare in scena come furia disperata. Smorzando questa furia a favore di un atteggiamento più dimesso, più lacrimevole, meno ardimentoso, Marigona offre una lettura inusuale, come se la collera per l'ingiustizia subita si infrangesse alle soglie dell'esteriorità e fosse come repressa in favore di un maggiore effluvio emotivo. Repressa non è certo invece la sua voce, che conquista per potenza e brillantezza, non disgiunta da un'agilità ammirevole nelle volatine di bravura, come in O patrizi… tremate… l'Eterno, dove già occhieggia la baldanza di Lady Macbeth. Qualche acuto, qua e là, appare come “lanciato” senza molto controllo; ma a fronte di questa nota a margine, come pure a fronte di centri ben dominati ma gravi un po' fiochi, Marigona regala emozioni incontenibili in alcune puntature inaspettate e folgoranti, capaci di sovrastare coro e orchestra, come pure nella grande perizia del canto in piano e nei filati, che riescono belli e uniformi.
Padre, nonno e suocero della situazione è Luca Salsi, un nome una garanzia, sul quale spendere parole appare superfluo. Il suo Francesco Foscari lo accompagna da ormai tredici anni (Trieste 2011), ma ad ogni ripresa la sua incessante ricerca di scavo lo porta ad esiti artistici migliori. Personalmente eguaglia, se non supera, la prestazione alla Fenice dell'ottobre scorso, dove condivideva il palco con Francesco Meli, Anastasia Bartoli e con la stessa Marigona Qerkezi nella recita del 10 (compleanno di Peppino!). Il Francesco di Luca rammemora già Simone Boccanegra, con cui, fatti i dovuti distinguo, condivide il senso di grandezza decaduta. Ma, oltre a uno stampo vocale granitico, a una rotondità e freschezza di strumento invidiabili, le qualità di Salsi si esplicano in un ruolo partecipato, sia nel canto, con sillabe e vocaboli scolpiti e pregni, onde dar loro il giusto peso, sia nella resa scenica: memorabile l'istante in cui, al primo atto, per contenere l'invettiva di Lucrezia, accenna con mano e testa alla stanza e a se stesso su «Bada a chi parli, e dove», o quando, alla notizia della morte del figlio, accenna un no labiale e scuote il capo: non è possibile … E quando infine piomba a terra, la sua caduta è così al naturale, che vien da crederlo esanime per davvero. Il pubblico, empatico, accoglie la sua commovente Questa è dunque l'iniqua mercede con applausi così lunghi e fragorosi, da indurlo a concederne il bis!
Degno contraltare è lo Jacopo Loredano di Antonio Di Matteo, che il ruolo esiguo valorizza troppo poco. Fisico imponente, sguardo, capelli e barba vagamente alla Kabir Bedi in Sandokan, Di Matteo, reduce dall'esser stato il primo cantante madrelingua italiano ad aver interpretato Osmin (in tedesco, natürlich …) alla Wiener Staatsoper, impersona qui un Loredano di grandeggiante malvagità, che domina all'ombra del seggio dogale col suo strapotere patrizio grazie a uno strumento cavernoso, bronzeo, cupo e vibrante.
Completano il cast il Barbarigo di Marcello Nardis, il Fante di Manuel Pierattelli, il Servo di Eugenio Maria Degiacomi e la Pisana di Ilaria Alida Quilico, tutti validi, nonché l'ottimo Coro del Municipale, istruito da Corrado Casati. Buona la direzione di Matteo Beltrami, alla testa dell'Orchestra dell'Emilia Romagna Arturo Toscanini (e della banda di palcoscenico del Conservatorio Nicolini di Piacenza), il cui pregio maggiore è il giusto equilibrio tra buca e palcoscenico, servito, quest'ultimo, senza essere sopraffatto da una massa orchestrale tenuta intelligentemente a bada e che non carica il lato bandistico, spesso oggetto di garibaldine volgarità direttoriali.
Il côté registico resta saldamente ancorato alla tradizione nell'allestimento di Joseph Franconi Lee, coprodotto col Teatro Pavarotti-Freni di Modena. Un allestimento nato nel 2008 che fa dell'essenzialità la sua cifra distintiva e non si perde in fronzoli. Le scene, di William Orlandi, che firma anche i costumi, sono tutte montate su una ripida gradinata a strapiombo sul golfo mistico. I Dieci, drappeggiati di una porpora quasi cardinalizia, in contrasto col resto del coro in nero, confabulano già durante il Preludio, per poi ritirarsi, all'arrivo di Jacopo, dietro una parete lignea: il segreto delle stanze della giustizia… Un trono dall'alto schienale dorato per il doge e una cella stilizzata per Jacopo al second'atto è quanto abbisogna. Il resto è lasciato alla fantasia dello spettatore.
Essenzialità e tradizione che non rinunciano a un tocco vintage, come il ricorso al fondale dipinto, nella fattispecie la laguna veneziana al tramonto, o a costumi e parrucche rinascimentali per le ballerine durante la regata, coreografate da Raffaella Renzi (avete presente le chiome della Venere di Botticelli? Ecco…). Certo, i costumi azzurri e trasparenti del popolo, durante questa scena molto colorata, fanno pensare un po' a un tulle fuori luogo (trasparenti anche quelli dei Dieci, i rossi e i neri); ma il bell'abito dorato del doge e quello verde acqua di Lucrezia compensano ampiamente.
Franconi Lee muove bene i solisti e li dispone con armonia sul palcoscenico; coro figuranti, però, immobilizzati talvolta improbabili “pose plastiche”, hanno un che di posticcio. Alcune trovate dimostrano invece un'inventiva simbolica interessante, come la scala che, al second'atto, permette a Francesco e Loredano di “scendere”, letteralmente, nei sotterranei della cella di Jacopo, l'aula semicircolare dai cui spalti il Consiglio quasi opprime la seduta, o ancora la laguna dipinta al termine dell'opera che s'inostra di sanguigno, grazie anche alle luci di Valerio Alfieri: della stessa porpora di Loredano che, sugli ultimi accordi dell'orchestra, trionfa in silhouette contro lo sfondo. Come a dire che stavolta il male ha vinto.
La recita è salutata da vere e proprie ovazioni da parte di un Municpale, ripeto, vicino al tutto esaurito, anticipate già al termine dei numeri solistici. Applausi entusiasti per tutti, davvero meritati.
Christian Speranza
8/5/2024
Le foto del servizio sono di Cravedi.
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