Bologna
La pace dell'avel
Finalmente è quanto desiderano i perdenti (tutti, perfino quel perverso Inquisitore che di grande ha solo il nome) dal Don Carlo di Verdi, che il Comunale ha ripreso dopo una lunga assenza. Il grandissimo merito di Michele Mariotti (che lo dice anche in una breve ma interessante intervista compresa nel programma di sala) è quello di averlo capito e averlo reso percepibile al pubblico già dal momento iniziale quando suonano i primi lunghi ominosi accordi che hanno dato l'atmosfera di tutta l'opera, una delle più grandi del grandissimo Verdi. Tutta la sua concertazione, il suo modo di seguire i cantanti, viene basata su questa profonda empatia con la musica che gli fa trovare sfumature perfino nei momenti più banali della gigantesca partitura, e perfino nella sua forma più ridotta, ma anche più concisa, quella in quattro atti presentata per la prima volta alla Scala. La sua orchestra – quella del Teatro – gli rispondeva in maniera splendida – come un paio di giorni dopo nella generale parziale, sinfonia e secondo atto, de L'italiana in Algeri rossiniana, titolo quanto mai opposto a questo che ci occupa adesso: un lavoro fantastico di compagine e maestro. Speriamo che il successore di Mariotti possa esserne all'altezza perchè il livello raggiunto è davvero elevatissimo. Molto bravo anche il coro istruito da Andrea Faidutti, anch'egli presente – e in modo importante – in quella generale di Rossini: vedere dei musici che passano dal più profondo dolore all'allegria scalmanata dell'Italiana è stata davvero una lezione, forse non solo musicale.
Contro di questo niente poteva il nuovo spettacolo allestito da Henning Brockhaus, brutto, didascalico fino all'esasperazione, incapace di risolvere problemi importanti quali la figura del frate/Carlo V, l'auto da fé, che non si salvano con dei figuranti inutili sul palcoscenico o mettendo l'Inquisitore sempre in scena fin dall'inizio, e in trono – forse Verdi non ci fa capire che il trono deve – o doveva allora – piegare sempre all'altare...forse Verdi non sapeva, nè i suoi librettisti, quando doveva apparire per la prima volta una figura importante per la quale crea una musica così sinistra da arrivare fino al Billy Budd di Britten, che non per caso ammirava tanto il Maestro.
Invece la compagnia di canto si offriva il lusso di alcuni cantanti tra i migliori oggi per i difficili ruoli. Roberto Aronica lo si dovrebbe vedere e sentire più spesso e in più posti nei personaggi di tenore spinto verdiano: il suo Infante arrivava alla fine senza fatica e perfino in qualche momento suonava troppo forte. Luca Salsi cantava in modo più sfumato del solito con delle mezzevoci interessanti e perfino un trillo il suo Marchese/Duca di Posa. Luca Tittoto tornava a mettere in rilievo un materiale di basso cantante di tutto rispetto nel frate misterioso (o non così tanto). Luiz-Ottavio Faria ha un buon registro grave per l'Inquisitore, se non altro. Dmitry Beloselsky ha un'eccellente voce di basso e canta bene, ma nel ruolo di Filippo si calava, stranamente, una volta finita la sua grande aria dell'atto terzo.
María José Siri (Elisabetta) si ritirava dopo il secondo atto per un subito malore e fino a quel momento il massimo che si possa dire è che era una corretta professionista. La sostituiva di corsa e dopo un lungo intervallo un'allieva della Scuola del Comunale, il soprano Luisa Tambaro, e questo precipitoso debutto (dovere incominciare con Giustizia, giustizia, o Sire con tutto quel che segue richiede nervi d'acciaio) ci consentiva di apprezzare una voce chiamata forse a un bel futuro visto che segue i passi della grande scuola italiana almeno per questo ruolo e anche se ovviamente ci sono ancora delle cose da sistemare. Stupenda la principessa Eboli di Veronica Simeoni: diventata per esigenze della regia una bionda vamp del cinema americano degli anni 30 o 40 dello scorso secolo (piuttosto femme fatale) la sua interpretazione e il suo canto (O don fatale provocava un'ovazione lunghissima e meritata, ma tutto il resto era di prima grandezza, dal velo con le sue agilità al tremendo terzetto dell'atto secondo e al quartetto del terzo) fanno di lei una di quelle cantanti che quando calcano il palcoscenico si trasformano e, con o senza allestimento, ci offrono una versione completa del loro personaggio: l'accento è un esempio di cosa significa davvero la tanto tormentata parola scenica di Verdi (ricorderò a lungo il suo commesso di confessione alla regina). Teatro pieno e molto effusivo nelle dimostrazioni di entusiasmo: meritato, ripeto.
Jorge Binaghi
29/6/2018
Le foto del servizio sono di Rocco Casaluci.