Filippo Mancuso e Don Lollò
inaugura la stagione 2018-2019 del Brancati di Catania
La stagione 2018-2019 del Teatro Brancati si è aperta il 25 ottobre con una pièce scritta espressamente da Andrea Camilleri e da Giuseppe Dipasquale per Tuccio Musumeci e Pippo Pattavina: Filippo Mancuso e Don Lollò. La commedia deriva da una promessa nata durante la messinscena de La concessione del telefono, tratta dall'omonimo romanzo di Camilleri: l'unica scena nella quale Filipo Mancuso e Don Lollò si sarebbero dovuti incontrare prevedeva un'inserzione a soggetto che, per le doti comiche dei due attori, provocò uno sbilanciamento dello spettacolo non attuabile nelle successive repliche. Così, per riportare l'ordine, Camilleri e Dipasquale promisero ai due comici che avrebbero scritto per loro una commedia nuova, partendo proprio dai personaggi in questione.
È nato così Filippo Mancuso e Don Lollò, un lavoro che attinge al repertorio classico della commedia siciliana, con il suo corteo di gags, carrettelle, equivoci e giochi di parole, tutto affidato al talento di Musumeci e Pattavina, che di questo genere di spettacolo sono maestri: un lungo spettacolo che si dipana su una vicenda esile e datata, che vede protagonisti due giovani, Lillina e Berto, l'una figlia del boss don Lollò, l'altro di Mancuso. Gioia e delizia dei due genitori, sciancatella l'una e scimunito l'altro, si innamorano e vorrebbero sposarsi, ma il loro progetto naturalmente incontra l'opposizione paterna, insieme alle classiche e trite avventure che da questa opposizione si ingenerano. Tra equivoci, preti compiacenti, serve di casa e uomini di fiducia (zanni post litteram) trascorrono più di due ore di spettacolo, dove Pattavina e Musumeci si sbizzarriscono in tutte le risorse del loro repertorio, con i classici effetti di un'ilarità debordante, talvolta genuina, talvolta gratuita e lambiccata, dove dell'acre satira di Camilleri resta ben poco, e dove invece sopravvive tutto quel che ha reso celebre, ma ahimè ormai assolutamente datato, il teatro vernacolare siciliano, monumento storico alla stregua dei vecchi film con Angelo Musco e Rosina Anselmi.
Una commedia che sarebbe stata più gradevole se più breve e meno compiaciuta della sua comicità, se fosse riuscita a far emergere la finzione e non il naturalismo smaccato: il pubblico ha riso molto nella prima parte, talvolta con applausi a scena aperta all'indirizzo dei due comici, ma nel secondo atto l'effetto trascinamento mostrava i suoi deleteri frutti, con una generale stanchezza e con applausi e risate sempre meno frequenti. Un peccato, tutto sommato, perché maggiore misura avrebbe consentito anche al pubblico più colto di apprezzare nella sua giusta luce quella che, nelle intenzioni primarie, sarebbe dovuta essere solo una variazione sul tema de La concessione del telefono: ma le variazioni, se non sei Beethoven o Mozart, meglio non comporle, perché rischiano di prenderti la mano e ti ritrovi con una sinfonia dove scale e arpeggi pretendono di sostituire la reale trattazione armonica dei temi.
Accanto a Musumeci e Pattavina si sono mossi con professionalità Margherita Mignemi, Riccardo Maria Tarci, Franz Cantalupo, Lorenza Denaro e Luciano Fioretto. Le musiche, gradevoli e adeguate al contesto, erano di Matteo Musumeci, le scene e la regia di Giuseppe Dipasquale, i costumi delle Sorelle Rinaldi.
Giuliana Cutore
27/10/2018
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