Don Pasquale
alla Scala di Milano
Alla Scala una nuova produzione di Don Pasquale di Gaetano Donizetti, con la regia “cinematografica” di Davide Livermore e la bacchetta di Riccardo Chailly. Don Pasquale, pur essendo un dramma buffo, è opera che lascia un certo amaro nella vicenda del vecchio arzillo che sarà gabbato nell'intenzione di trovare la giovinezza in un matrimonio con una giovane che lui crede pia e semplice. Sono le classiche caratteristiche della commedia buffa, con pochi personaggi e consueto lieto fine. Tutto questo non deve trarre nell'inganno che l'opera sia solo una farsetta divertente, seppur confezionata con una sapiente e risoluta mano musicale, essa contiene anche quell'amara delusione del protagonista, il quale con la frase “È finita! Don Pasquale” determina il crollo di un'illusione, velleitaria ma umana. Tutta la tinta dell'opera è intrisa di una melodia frizzante e delicata che solo un esperto e autorevolissimo compositore avrebbe potuto creare. Lo spettacolo di Davide Livermore è di grande fattura, complice una scena maestosa e incredibilmente movimentata realizzata con Giò Forma e i costumi strepitosi di Gianluca Falaschi. Livermore ci trasporta nei mitici anni '50-'60 nel periodo di massimo splendore di Roma, capitale non solo politica ma anche del cinema della moda. Durante la sinfonia assistiamo al funerale della mamma tirannica di Don Pasquale, una bravissima attrice che assomiglia a Tina Pica, la quale per tutta la vita ha osteggiato ogni simpatia femminile del figlio. Il protagonista, rimasto solo, può finalmente pensare al matrimonio, anche se in tarda età. Trionfa sulla scena un maestoso palazzo nobile barocco, che potrebbe parafrasare i palazzi romani della nobiltà papalina. Poi si lascia spazio al cinema e alla moda, un omaggio su cui il regista ha voluto porre l'accento. Bella idea ma anche troppo utilizzata da Livermore, stride che ogni opera lirica di cui è regista debba necessariamente avere una citazione cinematografica. Tuttavia tutto funziona, dall'atelier della “spiantata” Norina, nel quale sfilano modelle con abiti mozzafiato, chiaro omaggio alle sorelle Fontana. L'azione nel complesso è calzante e avvince lo spettatore, anche se la vicenda dovrebbe essere sviluppata tra le mura di casa mentre qui abbiamo spazi aperti suggestivi e riferimenti chiari. Inoltre la regia si concentra su una narrazione equilibrata della trama, con giusti momenti sia patetici sia gioiosi, ma a scapito dello sviluppo psicologico dei personaggi.
L'addio di Ernesto è ambientato alla stazione Termini, luogo di partenza abituale ma anche set di numerosi film. Poi si passa a Cinecittà con comparse in stile centurioni e donne in costumi storici, ricreando un ambiente ormai scomparso ma non dimenticato. Il punto meno riuscito è la scena del giardino al terzo atto trasportato in zona periferica con giostre e prostitute e copertoni di camion. Resta tuttavia uno spettacolo da vedere, per la grande macchina scenografica che a vista cambia completamente la scena, il tutto con grande sfarzo soprattutto nei costumi che riproducono fedelmente l'alta moda di quegli anni gloriosi, una Roma che non ha paragoni con la situazione attuale. E le citazioni sono innumerevoli, ognuno può scorgere squarci dell'arte di Rossellini, De Sica, Visconti, Fellini, Germi, Risi, Monicelli.
La riuscita di questa produzione poggia principalmente sulle spalle di Riccardo Chailly, il quale imprime un ricercato ritmo alla narrazione musicale con un bel gesto nel brioso ma altrettanto nel malinconico. I colori sono variegati e coesi, la scansione del ritmo sempre peculiare, e i cantanti sono seguiti con una perizia davvero rilevante. Tuttavia in qualche momento l'orchestra copre le voci in sezioni concitate, ma lo stile è indubbiamente impeccabile e nell'insieme il maestro milanese ci ha regalato una bellissima direzione. Puntualissimo e raffinato, come sempre, il Coro preparato da Bruno Casoni.
Il cast era all'altezza della situazione, sfoderando quattro professionisti di buona fattura. Ambrogio Maestri traccia un protagonista molto stilizzato, con fraseggio omogeneo e un buon utilizzo di colori. Scenicamente ha evitato giustamente manierismi caricaturali, ma rispetto ad altre sue esibizioni sembrava molto castrato nella recitazione, forse per impostazioni registiche, che diversamente è brillante e arguta, tuttavia una bella prova che suscita simpatia. Rosa Feola, Norina, è brillante attrice e raffinata cantante. La formazione lirica è molto accurata e la vitalità interpretativa frizzante senza cedimenti. Rispetto a prove precedenti parrebbe che il registro acuto sia ridimensionato, ma il personaggio è fluido e la linea di canto impeccabile. Non scade in compromessi vocali da soubrette qualificandosi come primadonna elegante e stilizzata.
L'Ernesto di René Barbera è puntuale e preciso, contraddistinto da una voce bella e manierata, ma non sempre precisa, le mezzevoci e pianissimi non sono proprio suo terreno fertile. È comunque cantante ispirato e con un buon fraseggio, cui si somma una volenterosa e in parte efficace predisposizione nel registro acuto, la chiusa della cabeletta registra una mirabile salita al Re.
Gran bella prova quella di Mattia Olivieri, Malatesta, il deus ex machina della vicenda. Cantante molto musicale e a suo agio nel canto sillabato denota però un certo limite nel settore grave e un'ampiezza vocale non del tutto risolta. L'interprete è superlativo, per carisma, brillantezza e vivacità teatrale. Efficace Andrea Porta, il notaro, caratterizzato come un ladro di borgata, intrigante e divertente.
Successo vivo al termine della recita, con numerose chiamate al proscenio per tutta la compagnia.
Lukas Franceschini
19/4/2018
Le foto del servizio sono di Brescia e Amisano-Teatro alla Scala.
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