Donizetti Opera Festival 2020
Contro ogni previsione, date le circostanze in cui versano i teatri per la pandemia, il Donizetti Opera Festival edizione 2020 si è tenuto. Non si può che plaudire al coraggio e all'intraprendenza degli organizzatori, che sono riusciti ad assicurare la messinscena di tre dei cinque titoli previsti (a parte L'amor coniugale di Johann Simon Mayr e La fille du régiment del suo allievo più famoso) in un teatro ancora allo stato di cantiere come il Donizetti, in Bergamo Bassa. Proprio al Donizetti, quando il 16/11/2019 venne presentata per la prima volta in Italia (e per la prima volta al mondo in allestimento scenico) l'Ange de Nisida, si era fatto ricorso a un uso alternativo della platea: priva com'era di poltrone per via dei lavori, venne utilizzata come palcoscenico per l'azione drammatica. Da quella data i lavori sono proceduti a rilento fino a sospendersi, per ragioni che si possono ben immaginare, e il Teatro è ancora come lo avevamo lasciato l'anno scorso: e così è stato utilizzato anche in questa occasione, due volte per allestimenti scenici (Marino Faliero e Le nozze in villa) per un allestimento oratoriale (Belisario).
Coloro che, come lo scrivente, non hanno potuto presenziare agli spettacoli, hanno beneficiato di un apposito servizio di web tv on demand sul sito internet del Festival. Pur non potendo fornire una recensione esaustiva delle tre opere, filtrate dall'acustica dei mezzi di riproduzione, si intende qui fornire un resoconto il più possibile obiettivo e fedele di quanto visto e ascoltato.
Il Marino Faliero rappresentato venerdì 20 novembre è stato anche trasmesso in diretta su Rai 5. L'opera, commissionata da Parigi, fu composta nell'estate del 1834 su libretto di Emanuele Bidera, ma venne pesantemente rivista su consiglio di Rossini e con la collaborazione di un secondo librettista, Agostino Ruffini. In questa seconda versione andò in scena per la prima volta al Théâtre-Italien il 12 marzo 1835, appena un mese e mezzo dopo I puritani di Bellini: e con l'ultimo lavoro del Catanese, il Faliero condivise il quartetto vocale dei primi interpreti: Lablache, Tamburini, la Grisi e Giovanni Battista Rubini. Fu per la voce di quest'ultimo che Donizetti scrisse le due difficilissime arie di Fernando. Non per nulla per il Festival venne scritturato inizialmente Javier Camarena; ma avendo egli dato forfait, la scelta è ricaduta su Michele Angelini, che, complice una preparazione messa a punto in poco tempo e un'indisposizione fisica, non ha retto il confronto con chi era stato previsto. La debolezza della voce per il ruolo, unita a un notevole sforzo per raggiungere le note più acute, prese talvolta quasi in falsetto, hanno minato fin dall'inizio la sua prestazione, bilanciata in parte dalla grazia di un'interpretazione trasognata. Innalzano il livello l'Israele Bertucci di Bogdan Baciu e l'Elena di Francesca Dotto, entrambe voci convincenti ed espressive, il primo con un timbro elegante e una buona emissione (talvolta un poco ingolata), la seconda con una voce corposa, tendente al cupo, agile e robusta.
Sopra a tutti giganteggia il Faliero di Michele Pertusi, per il quale ogni lode sarebbe riduttiva. Volume vocale da vendere, timbro scuro, cavernoso, presenza scenica, interpretazione: nel suo Faliero c'è tutto ciò che di positivo si possa dire, complice anche l'esperienza di un ruolo ricoperto varie volte nel tempo.
Bene anche tutto il comprimariato: lo Steno di Christian Federici, il Leoni di Dave Monaco, l'Irene di Anaïs Mejías, il Gondoliere di Giorgio Misseri, il Beltrame di Stefano Gentili, il Pietro di Diego Savini, lo Strozzi di Vassily Solodkyy, il Vincenzo di Daniele Lettieri, la Voce di Piermarco Viñas Mazzoleni e i tre figli di Israele: Enrico Pertile, Giovanni Dragano e Angelo Lodetti.
La regia, affidata a Stefano Ricci (progetto creativo ricci/forte), ha tuttavia affossato la riuscita visiva dello spettacolo. I costumi assurdi di Gianluca Sbicca e le scene insulse di Marco Rossi hanno fatto il resto. I cantanti si sono mossi su e giù per tralicci e passerelle in metallo, simbolo di una Venezia stilizzata a palafitta. Di contorno, una serqua di mimi coreografati da Marta Bevilacqua, mascherati da pesci e da polpi alla festa da Leoni, altre volte manovrati come marionette da un mimo-burattinaio, simbolo del potere pilotato di Faliero.
Tripudio di ottime voci, invece, per il Belisario eseguito giovedì 19 novembre e disponibile sulla web tv da sabato 21. L'opera, come anche il Faliero , appartiene alla maturità artistica di Donizetti e rinnova il sodalizio artistico con Salvadore Cammarano, il quale, dopo avergli fornito il libretto della Lucia di Lammermoor nel 1835, gli fornisce, entro l'ottobre dello stesso anno, quello del Belisario , modellandolo a sua volta su un copione di Luigi Marchionni. L'opera andò in scena con successo alla Fenice di Venezia il 4 febbraio 1836. Torna al Donizetti Opera Festival 2020 nelle voci di Roberto Frontali (Belisario), Carmela Remigio (Antonina), Annalisa Stroppa (Irene) e Celso Albelo (Alamiro). Il primo si riconferma l'ottimo baritono del Rigoletto che diede il via alle rappresentazioni musicali dal vivo il 16 luglio a Roma dopo il lockdown: voce potente, vibrante, che scolpisce le parole definendo un Belisario dalla granitica statura morale. Carmela Remigio, ormai di casa al festival donizettiano, si cala perfettamente nella parte e si riconferma, come già nei panni di Lucrezia Borgia l'anno scorso, a suo agio nel dar vita ad eroine drammatiche e infuocate di pathos . Voce solida, piena, caratterizzata da rotondità brunite e agilità che sfodera lungo tutta la partitura e massime nell'ottima esecuzione del rondò conclusivo Egli è spento. Ottima prova anche per Annalisa Stroppa, il cui minor volume vocale, unito ad un'ammirevole duttilità, tratteggia al meglio la giovane e amorevole, e a suo modo eroica, figlia di Belisario. L'Alamiro/Alessi di Celso Albelo è un lodevole specimine di eleganza e padronanza tecnica, per quanto il timbro sia talvolta un po' opaco.
Validi anche i comprimari. Ammantato di gravitas il Giustiniano di Simon Lim, basso di notevole risonanza (timbro alla Paata Burchuladze, per intenderci, e con le dovute differenze), che non sfigurerebbe nel ruolo di Sarastro, e l'Eutropio di Klodjan Kacani. Completano il cast l'Eudora di Anaïs Mejías, l'Eusebio di Stefano Gentili, l'Ottario di Matteo Castrignano e il Centurione di Piermarco Viñas Mazzoleni.
Il Coro (istruito da Fabio Tartari e posto sul palcoscenico) e l'Orchestra Donizetti Opera, sempre impeccabili, hanno preso parte sia al Faliero , sia al Belisario , entrambi diretti dall'altrettanto impeccabile bacchetta di Riccardo Frizza, direttore artistico del Festival.
Un salto indietro nel tempo di diciassette anni ci riporta dalla Venezia di Belisario, 1836, alla Mantova de Le nozze in villa, 1819. Il terzo e ultimo titolo del Festival si inscrive nel progetto Donizetti 200, che ha l'obiettivo di riportare in scena le opere del Bergamasco al volgere dei due secoli di vita. Dopo il Pigmalione (2017), Enrico di Borgogna (2018) e Pietro il grande, kzar delle Russie (2019), quest'anno è il turno di un'opera di cui si sa poco o nulla: nessuna recensione sui giornali dell'epoca; data del debutto sconosciuta; libretto non pervenuto; non pervenuta la partitura autografa (sopravvive una copia quasi completa alla Bibliothèque Nationale de France di Parigi, ma di donizettiano non vi sono che poche righe, e alcune parti staccate alla Biblioteca Greggiati di Ostiglia, in provincia di Mantova). I pochi dati certi dicono che Donizetti compose Le nozze in villa per la compagnia itinerante dell'impresario Zancla nei primi mesi del 1819 su libretto di Bortolomeo Merelli, che derivò l'argomento da Die deutschen Kleinstädter (Gli abitanti delle piccole città tedesche, in italiano come I provinciali) di August von Kotzebue, e che l'opera andò in scena di lì a poco, verso la fine della stagione di Carnevale o al più all'inizio di quella di Quaresima. Si ha poi notizia di una ripresa a Treviso nel 1820, probabilmente in forma rivista o come seconda versione (versione cui fa riferimento il Festival); e di una terza a Genova nel 1822 con inserti di opere di Pacini e Rossini. Un'ulteriore ripresa a L'Avana nel 1826 porterebbe a pensare che il quintetto mancante Aura gentil che mormori possa giacere presso il locale Conservatorio; in attesa di constatarlo, il Donizetti Opera Festival ne ha commissionata la composizione ex novo a Elio (di Elio e le Storie Tese), Rocco Tanica ed Enrico Melozzi.
L'opera rispecchia i tipici caratteri del genere buffo. La trama ruota attorno al matrimonio che il podestà Don Petronio vorrebbe combinare tra sua figlia Sabina e il maestro del paese Trifoglio. Ma Sabina è innamorata di Claudio, un giovane conosciuto in città e che, in un primo momento viene scambiato per il re a causa di un equivoco provocato dalla nonna Anastasia. Dopo prevedibili peripezie, i due giovani ottengono il permesso di sposarsi. La satira di fondo è il contrasto fra la mentalità provinciale e quella cittadina. Ed è su questo senso di satira che il regista Davide Marranchelli basa l'allestimento del festival. Traendo spunto dal titolo e dall'argomento, si mette in scena un matrimonio organizzato in uno di quei “matrimonifici” moderni alla Enzo Miccio, dove il gusto del pacchiano, la sovrabbondanza di menu, di invitati e fasto diventa la regola. La platea del Teatro Donizetti diventa, grazie alle scene di Anna Bonomelli, la location di una villa affittata per l'occasione. Le comparse, due coppie di sposi, vengono fotografate davanti a sfondi di Venezia e di locandine di film, poi battibeccano. E i due grandi cigni fatti di palloncini bianchi, zuccherosa chicca kitsch, romantica solo per chi è kitsch nell'animo, ben rende l'idea, assieme all'ampio dispiegamento di risorse nel corso dell'opera (la grande torta nuziale con le effigi di Sabina e Trifoglio, colonne di palloncini cuoriformi, riflettori, una golf car, ecc.). Tutto questo mentre la sinfonia prende corpo nell'Orchestra Gli Originali diretta da Stefano Montanari, che accompagna nel corso dell'opera anche i recitativi al fortepiano. Il Coro Donizetti Opera viene stavolta dislocato nei palchi. In questo mondo artefatto dove tutto è finto (perfino il manto erboso, che a fine opera viene sollevato: finto anche nella finzione!) vien fatto di pensare quasi a un'evocazione del teatro nel teatro. E, calati in questo contesto, riescono ad avere senso anche i costumi di Linda Riccardi. Vediamo così un Trifoglio (Fabio Maria Capitanucci) mastro cerimoniere in completo color mauve e oro, un Don Petronio (Omar Montanari) con la fascia tricolore, in veste di podestà/sindaco; una cotonata Anastasia (Manuela Custer), attempata signora perbene che possiamo immaginare imbucata fissa alle feste così come Rosaura (Claudia Urru) cui va stretto il suo stato di zitella, mentre tutti attorno a lei si maritano. Significativamente, Sabina, la protagonista (Gaia Petrone), è colei che più degli altri è abituata a veder consumarsi questi riti pomposi, dato che è la fotografa: la sua saldezza è rappresentata dal look androgino e dal castigato tailleur pantalone bianco. Claudio (Giorgio Misseri), il vero “forestiero”, fa la parte del turista, in infradito, paglietta e camicia hawaiana.
Così composito, il cast, completato dal famiglio Anselmo (Daniele Lettieri), risulta perfettamente omogenea ed equilibrata, riuscendo tutti a disimpegnare i rispettivi ruoli con pregevole souplesse , ciascuno senza prendersi troppo sul serio, come conviensi a un'opera buffa. Restano nelle orecchie la voce squillante di Giorgio Misseri, tipicamente rossiniana, come il ruolo qui ricoperto, capace di acuti e fiati notevoli, e quella di Gaia Petrone, dotata di agilità e legature, oltreché graziata da un timbro davvero piacevole. Equipollenti i due gravi, Capitanucci e Montanari, alle cui qualità vocali si aggiungono buone doti interpretative e attoriali.
Christian Speranza
21/12/2020
La foto del servizio è di Gianfranco Rota.
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