Elisir sotto la Mole
«Dopo l'oscuro nembo» del Trovatore verdiano, opera cupa, dominata da vendette, roghi, esecuzioni, il Teatro Regio di Torino ha proposto, per il mese di novembre 2018, un titolo fresco e vitale come L'elisir d'amore di Gaetano Donizetti. Che sia stata casuale o voluta, la scelta di inserire un titolo donizettiano, anzi “il” titolo donizettiano per antonomasia, proprio nel mese di nascita dell'autore e nel 170° anniversario della sua scomparsa, pare azzeccata e felice. Da quando vide la luce al Teatro della Cannobbiana di Milano il 12 maggio 1832, il dramma giocoso in due atti su libretto di Felice Romani non ha mai smesso di incontrare il favore del pubblico: fortunata combinazione di un soggetto semplice ma dai tempi teatrali perfettamente calcolati, tratto da Le philtre di Eugène Scribe (del 1831, già musicata nello stesso anno da Daniel Auber), di un lessico diretto e di una caratterizzazione dei personaggi che prende spunto dagli stilemi consolidati dell'opera buffa settecentesca (raffinati ulteriormente da Rossini) e li coniuga con il nuovo sentire romantico, incline a fare dei personaggi sulla scena, anche dei più apparentemente ridicoli, non dei burattini senz'anima, ma uomini e donne in carne e ossa, e soprattutto con sentimenti da esprimere.
Che il «villaggio nel paese de' Baschi» previsto da Romani sia stato rivisitato in chiave italiana come paesino in una campagna degli anni Cinquanta da parte di Fabio Sparvoli non può essere considerato un insulto registico: sempre di situazione agreste si tratta, di una realtà rurale; la drammaturgia ha luogo con verosimiglianza, la scansione delle scene è agevole, grazie a scenografie semplici ma efficaci (classica piazza del paese, colline sullo sfondo, abile gioco di luci di Andrea Anfossi, che diventano intimistica penombra riflessiva nei momenti di più intenso patetismo – Adina credimi, te ne scongiuro al primo atto, Una furtiva lagrima al secondo). Il riferimento a Pane, amore e fantasia e al mondo cinematografico di Comencini è scoperto, e richiama la scelta registica operata per questo stesso titolo da Leo Nucci per la messinscena piacentina del 2014 (in quell'occasione, i costumi di Artemio Cabassi si rifacevano ancor più apertamente ai personaggi della Bersagliera e del maresciallo Carotenuto). Anche per Fabio Sparvoli, Belcore e i suoi soldati diventano carabinieri in alta uniforme, con tanto di «sciabla al fianco», e gli accesi colori pastellati dei costumi di Alessandra Torella strizzano l'occhio al look delle ragazze di Grease.
Non così convincente appare la direzione di Michele Gamba, che pur dispone di un'orchestra di livello come quella del Teatro Regio di Torino: i solisti vengono spesso travolti, sommersi dal volume orchestrale, che sopravanza i cantanti, anziché accompagnarli. Inoltre, corre tesa su tempi concitati, talvolta quasi precipitati, che costringono non tanto gli strumentisti (che seguono benissimo), quanto i coristi a non articolare per bene né le melodie, né il libretto: passaggi come il coro d'apertura, Bel conforto al mietitore, risultano perciò approssimativi, a dispetto della pur reale compattezza del Coro del Teatro Regio, istruito da Andrea Secchi, che già in più di un'occasione ha dato prova della sua bravura. Le “immagini sonore” corrono via senza troppa cura del particolare, dando all'intera recita un che di sbrigativo, di superficiale. La superficialità sembra essere anche la cifra distintiva della caratterizzazione dei personaggi, che non vengono approfonditi, ma appena sbozzati, musicalmente parlando. E sì che Romani e Donizetti ci hanno messo del bello e del buono per dar loro un'identità precisa. Così, Nemorino si avvale di Giorgio Berrugi, tenore aggraziato, adatto al ruolo, timbro chiaro sebbene non molto squillante, che, pur impegnandosi visibilmente, soprattutto nei momenti di più acceso patetismo (ben fatta la romanza Una furtiva lagrima, forse in virtù del fatto di essere all'ultima recita, per concludere in bellezza: ci si riferisce qui alla data del 24 novembre 2018), fa emergere quasi sempre solo il lato più immediato del personaggio, quello del semplicione. Più caratterizzato il Dottor Dulcamara di Simón Orfila, che sostituisce il previsto Roberto de Candia, assente per colpa di una “persistente indisposizione”. La notizia, che prende alla sprovvista il pubblico a inizio recita e suscita il suo sgomento, non sembra arrecar danno al personaggio, che si mostra tronfio e baldanzoso, a bordo di quella che sembra una Fiat Topolino, e si impone all'attenzione suonando il clacson e sfoderando la sua arte in giacca e cravatta, un'eleganza posticcia con tanto di uose, in linea con la sua psicologia. Vocalmente si tratta di un baritono vibrante, caldo, che sa dominare il suo ruolo, tanto da permettersi discrete libertà rispetto alla sua parte scritta (puntature, corone, il falsetto nevrotico sulla parola «isterici»).
O troppo, o troppo poco: sempre a proposito di caratterizzazione, il Belcore di Julian Kim raggiunge addirittura il ridicolo esagerando il ruolo di tronfio Narciso, non si sa se per volere del regista o se per iniziativa di Kim stesso. A descrivere la personalità egocentrica di Belcore basta il suo linguaggio: basterebbe anzi la sua cavatina Come Paride vezzoso, dove si paragona, appunto, a Paride e più tardi direttamente a un dio: Marte. Non abbisogna, per farsi recepire dal pubblico come sciocco vanesio millantatore, di spade sfoderate, di movenze quasi inconsulte e di una sbruffonaggine sottolineata da una recitazione ridondante e non necessaria. Chiudendo gli occhi e disinteressandosi di questo aspetto, però, si può apprezzare un basso corposo, dotato di voce rotonda e di un bel volume, perfino eccessivo per il ruolo, perfetto forse per un Jago verdiano o uno Scarpia.
Coniuga spontaneità di recitazione, scevra da inutili esagerazioni, e uno stile vocale delizioso, dulcis in fundo, la Adina di Lavinia Bini, interprete lodevole in tutto e per tutto. Soprano agile, dalla voce fresca, in grado, come Orfila, di infiorettare il suo ruolo di cadenze e volatine appropriate e graziose, Lavinia Bini convince in ogni registro, dal grave all'acuto. Il ruolo non richiede escursioni esagerate in nessuno dei due estremi e nemmeno dei fortissimi tali da sgolarsi; piuttosto, è nel portamento della voce, nella grazia della linea melodica e nella legatura dei passaggi la difficoltà e i punti di forza su cui la vocalità di Adina fa leva; e, sebbene non dotata di esagerata brillantezza, Lavinia Bini riesce a portare sul palco queste caratteristiche con naturalezza e senza sforzo apparente, e si conferma come l'interprete migliore del cast, completato da Ashley Milanese, la quale, nel breve passaggio solistico Saria possibile? - Possibilissimo del secondo atto, dà vita ad una Giannetta furba e simpatica, degno contraltare di Adina.
Christian Speranza
10/12/2018
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