Un festival da cui imparare
Il più antico dei festival musicali finlandesi ha radici più remote dei nostri Montepulciano o Martina Franca, prossimi a doppiare il mezzo secolo di vita. Con sede in quella che è la terza (per abitanti) città della Finlandia, e per secoli fu la sua capitale, il Turku Music Festival esiste dal 1960: insediato nell'accogliente e luminoso auditorium costruito sette anni prima, nonché, all'occasione, decentrato in altri luoghi cittadini, a cominciare dall'imponente cattedrale romanico-gotica per quanto riguarda i concerti di musica sacra. Una programmazione generalista ma di sicura qualità, oscillante tra importanti orchestre sinfoniche e prestigiosi solisti strumentali e vocali, aperta allo star system internazionale mantenendo un occhio di riguardo per gli artisti finlandesi, ne caratterizza i cartelloni: sicché, in quell'agosto inoltrato dove il festival prende vita, anche dalla vicina Svezia sono molti i melofili che si recano nella verdeggiante Turku di fine estate.
Gli ultimi due concerti che hanno concluso la rapida e intensa edizione di quest'anno sono stati all'insegna delle grandi personalità femminili: prima una serata della violinista Anne-Sophie Mutter e il suo ensemble di giovani virtuosi, l'indomani chiusura operistica con un recital del soprano Lise Davidsen. Concerto abilmente mediatico il primo e di più frastagliate traiettorie il secondo, ma entrambi d'impeccabile impaginazione.
Calata ormai nell'attuale immagine di “chioccia manager” non meno che in quella – da sempre assodata – di musicista provetta, la Mutter sprona e titilla i suoi ragazzi (parità di genere pressoché rispettata con sette maschi e sei femmine, secondo i canoni del marketing più correct), li controlla al millimetro divertendosi con loro, zigzagando tra classici immarcescibili (Vivaldi, Bach) e contemporanei sapientemente commerciali (André Previn, John Williams). Il suo Vivaldi ludico, rigoglioso e fonicamente trascinante è una meraviglia, a cominciare dal Concerto per tre violini dove la Mutter è infallibile primus inter pares accanto ai giovanissimi Timothy Chooi e Carla Marrero; e naturalmente l'Estate delle Quattro stagioni, proposta come bis, è un tripudio annunciato. Il Bach affrancato da soverchie preoccupazioni filologiche della Mutter suona invece meno idiomatico: non per questioni di purismo accademico (nei capolavori perenni ogni lettura è possibile), ma perché, al di là del bel suono, non sembra farsi strada una fisionomia precisa; e dispiace, nel Terzo concerto brandeburghese, ascoltare il clavicembalo (il puntuale Knut Johannessen, unico strumentista di mezza età accanto a quei tredici talentosi cadetti dell'arco) retrocesso a una posizione ancillare. Molto più interessante l'esito del Concerto per violino di Joseph Bologne (1745-1799): pagina che all'apparenza non si discosta da tanto stile galante dell'epoca, ma cui la Mutter insuffla un'imprevedibile carica emotiva e quasi teatrale.
La norvegese Davidsen è diventata in pochi anni un'icona del canto scandinavo, assurgendo a ideale terzo polo tra la svedese Nina Stemme e la finlandese Karita Mattila, rispetto alle quali ha però – appartenendo alla generazione delle trentenni – un vantaggio anagrafico non indifferente. Il suo è stato un concerto in grande spolvero: non il consueto recital della primadonna accompagnata da un pianista compiacente, ma un variegato percorso sinfonico-vocale tra repertorio italiano e tedesco (di qua Verdi e Puccini, di là Beethoven e Wagner), non privo di una sapida incursione operettistica, dove la voce fronteggiava un'intera orchestra a sua volta impegnata in ouverture e intermezzi. Al netto di qualche incertezza della bacchetta, soprattutto nelle sinfonie dei Vespri siciliani e della Forza del destino (lo spagnolo José Miguel Pérez-Sierra ha dato il meglio quando si è trovato a giocare in casa, nell'intermezzo della zarzuela di Géronimo Giménez La boda de Luís Alonso), la serata è stata assai appagante: per la compattezza della Filarmonica di Turku (solo in Puccini la densità fonica è sembrata tradursi in una certa rigidità) e, soprattutto, per il carisma senza fronzoli della Davidsen, la sua immediatezza espressiva, il suo fare di un recital non una vetrina ma un'avventura interpretativa.
La voce può contare su un registro acuto dalla fosforescente forza di penetrazione, cui si affiancano sonorità centro-gravi meno risonanti e, tuttavia, sempre plastiche e timbrate. Con una tale conformazione, il Wagner lirico-spinto resta l'autore più congeniale (un'Elisabeth del Tannhäuser d'impagabile slancio e gioiosità nell'ode alla casa), ma tutte le interpretazioni risultano interessanti, perché nella Davidsen le qualità canore non fanno trascurare la fraseggiatrice: lo si nota soprattutto quando affronta la grande aria di Leonore nel Fidelio , dove la drammaticità fremente del momento scenico conserva sempre in filigrana la tenerezza della donna innamorata. Il perfetto dominio tecnico non consente invece, nei brani pucciniani, un pari controllo emotivo (i soprani di area non latina con Puccini spesso scantonano o nell'algidità o nell'ipersensibilità), mentre l' Ave Maria dell'Otello e Tu che la vanità del Don Carlo approdano a una pressoché ideale convergenza tra sontuosità fonica della cantante e nobile compostezza dell'interprete. Quanto al Macbeth, salvo errore ancora mai affrontato in teatro, la Davidsen non imbocca la scorciatoia di wagnerianizzarne il tagliente declamato (il brano scelto è Vieni! T'affretta!, con tanto di lettura iniziale, recitativo e cabaletta – pur privata del “da capo”): la sua è una Lady fresca e carnale, più flautata che stilettata, incline a un belcanto interiorizzato piuttosto che a un recitar cantando. Mentre – in sottofinale, prima dei bis wagneriani – la gran scena della Principessa della Czarda di Kálman dà conto d'una commediante divertita e divertente, per la quale l'operetta è una ventata di leggerezza e non un siparietto da prendere sottogamba.
Pubblico entusiasta e concentratissimo in entrambi i concerti. Anche questo fa la qualità di un festival.
Paolo Patrizi
31/8/2023
Le foto del servizio sono di Oskar Jankes.
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