Il Festival di Savonlinna
fra Medioevo contemporaneo e Bibbia ecologista
Incastonato in uno spettacolare scenario lacustre, il castello di Sant'Olaf (Olavinlinna, in finlandese) è la più suggestiva fortezza medievale della Finlandia, appartenente a quel sistema di isole e penisole che – col senno di poi – ha dato vita alla città di Savonlinna, quattrocento chilometri a nord-est di Helsinki, quasi ai confini con la Russia: un'impagabile location, il cui vasto cortile interno dal 1912 è sede di spettacoli operistici. Anche se la consuetudine d'un autentico festival è nata poi nel 1967, trasformando Savonlinna in un appuntamento iconico per i melomani scandinavi. L'edizione di quest'anno si è aperta con una doppietta wagneriano-verdiana di sicura presa musicale: se per Lohengrin si è trattato della riproposta di uno spettacolo collaudato, nato tredici anni fa e già ripreso in altre occasioni, Nabucco è stata una produzione nuova di zecca. Con esiti – diciamolo subito – più riusciti nel primo che nel secondo caso. D'altronde, per una leggenda medievale come il Lohengrin, è difficile trovare uno scenario più ideale di Savonlinna. Tanto Stephan Zilias (dal podio) quanto Roman Hovenbitzer (in cabina di regia) sono più abili impaginatori che idiomatici ermeneuti. Mettono in primo piano la chiarezza del racconto – l'uno musicale, l'altro drammaturgico – e lasciano che Wagner “parli” da solo, senza tentazioni da direttore divo e regista demiurgo. Ne sortisce, per quanto riguarda Zilias, un Lohengrin descrittivo piuttosto che speculativo (i Leitmotiv vengono di volta in volta esplicitamente esposti, anziché emergere nella loro dimensione di reticoli dell'inconscio), attento alla solidità dell'impianto più che ai preziosismi coloristici (nel Vorspiel latita quella diafana luminosità che dovrebbe traghettare in un mondo trascendente, mentre il monumentale concertato del secondo atto viene restituito in tutta la sua evidenza plastica), comunque spedito nella narrazione e di saldo supporto al canto.
Da parte sua, Hovenbitzer firma una regia dove l'ampio numero di trovate non si coagula in un Konzept unitario, ma che ha il merito di un'estrema leggibilità e lascia allo spettatore tirar le proprie conclusioni. Ricostruisce, con la complicità dello scenografo Hermann Feuchter e del costumista Hank Irwin Kittel, un'ambientazione tra il moderno e il senza tempo che rappresenta, in fondo, un intelligente aggiornamento di quel crogiuolo di fonti medievali e romantiche in cui si sostanzia il Lohengrin; crea un'efficace contrapposizione non solo etica ma generazionale tra la coppia Elsa-Lohengrin e quella Ortruda-Telramondo (il mondo dell'utopia ai giovani, il mondo del potere ai vecchi); e alla sempiterna domanda su chi sia davvero Lohengrin (Wagner stesso? il Messia? l'Artista Incompreso?) si schiera per l'ultima ipotesi: il Cavaliere del Cigno viene declinato come un pop painter, troppo anticonformista per il mondo circostante, che tenta di trasformare pure Elsa in un'opera d'arte. Il loro amore naufragherà anche per questo.
Fra tanti – perfino troppi – spunti, spicca un finale che parte come teatro della crudeltà e si conclude invece poeticissimo: tornato il bimbo Goffredo in sembianze umane dopo la sua trasformazione in cigno (è il piccolo Aathos Riihonen, formidabile), Enrico l'Uccellatore lo sottrae nuovamente a Elsa, ponendogli una corona in testa e negandogli il mondo dell'infanzia per catapultarlo in quello della guerra. Il bambino, però, riesce a fuggire: e l'ultima immagine ce lo mostra proprio insieme a Elsa, mentre sorella e fratellino si baloccano con un immenso cigno-giocattolo. Questa rivisitazione utopistico-libertaria della protagonista, tra l'altro, ha giovato pure all'interprete: Sinéad Campbell Wallace è corretta ma convenzionale finché il personaggio si mantiene sui tradizionali binari di femminilità passivo-remissiva; mentre l'ultimo atto, proprio a partire dal suo moto di ribellione verso Lohengrin, mostra un'artista duttile e compenetrata, oltre che di grande appeal scenico. Più esile il suo partner – Tuomas Katajala appare troppo poco robusto come tenore eroico e troppo nasale come tenore lirico – e di gran rilievo, invece, la coppia malvagia.
Accolta da un trionfo (è d'altronde la più celebre cantante finlandese dei nostri giorni), Karita Mattila dopo quarant'anni di palcoscenico passa da Elsa a Ortruda con mezzi quasi intatti, oltre che gestiti a regola d'arte: se i passaggi di più spasmodica tensione – l'invettiva del secondo atto, la rivelazione finale del sortilegio – sono affrontati con una certa cautela, il duetto con Telramondo e quello con Elsa danno conto d'una dicitrice cesellatissima. Lucio Gallo gli fa da valida spalla con il suo Telramondo violento e tormentato: ed è singolare che spetti all'unico italiano del cast la raffigurazione canora più “bayreuthiana”, incline cioè a un aspro Sprechgesang laddove tutti gli altri interpreti sembrano guardare a un Wagner cantabile e liricizzato. Due vocalità interessanti, infine, si sono avute in Timo Riihonen e Kristian Lindroos: il primo – con il guanto nero del Dottor Stranamore, a ricordarci la suggestione che l'immaginario nazista provò per Enrico l'Uccellatore – voce di basso morbida e rotonda negli affondi gravi, cui gioverà lavorare su acuti ancora tendenti alla stimbratura; il secondo baritono svettante, come si conviene al ruolo dell'Araldo.
Nabucco è sembrato meno congeniale sia all'orchestra (trombe inappuntabili in Wagner, più incerte in Verdi) sia al coro del Festival (concentrato nell'attesa di Va', pensiero, più impreciso nel resto dell'opera): colpa forse della bacchetta di Ville Matvejeff, privo – al pari di Zilias – di una lettura davvero personale della partitura, ma, al contrario del collega, colpevole pure di una certa sciattezza esecutiva, a cominciare dai “da capo” delle cabalette sistematicamente tagliati. Si direbbe che lo spettacolo punti soprattutto alla messinscena, qui lontana dalle suggestioni bibliche come da quelle risorgimentali e che, tuttavia, lascia perplessi: lo scontro tra babilonesi invasori ed ebrei perseguitati si trasforma in una lotta tra tecnocrati inquinatori ed ecologisti new age, in uno scenario post-catastrofe globale evocato meglio dalle luci taglienti di Jake Wiltshire che dalle scenografie asettiche del designer Takis; mentre Rodula Gaitanou firma un “progetto concettuale” più che una regia in senso stretto (mal coordinate le masse), con forzature – il piccolo ruolo di Anna trasformato in un'attivista ecologista almeno scenicamente coprotagonista – e qualche affondo grottesco.
Resa menzione speciale alla giovane Johanna Nylund per come “amplia” il personaggio di Anna, tra i solisti – che cantano i versi di Solera, mentre i sopratitoli introducono cambiamenti funzionali alla rilettura registica – spiccano Annalisa Stroppa (Fenena femminile e dolente), Anthony Ciaramitaro (Ismaele per una volta non in posizione ausiliaria) e Mika Karas: uno Zaccaria giovanile, dunque ideale fratello di quell'Anna adolescente, morbido e incisivo al contempo. Gabriele Viviani mira a un Nabucco più barbarico che introspettivo, forzato nei concertati e nella cabaletta, efficace nell'aria e nel duetto con Abigaille. Ad affrontare quest'ultima, una delle voci lirico-belcantistiche più interessanti di oggi come Marigona Qerkezi. Non è quel soprano drammatico di agilità che Verdi qui richiede (le mancano gli acuti sciabolanti e il registro grave corposo), ma simula bene. Speriamo che il suo squisito organo vocale non ne risenta.
Paolo Patrizi
12/7/2024
Le foto del servizio sono di Jussi Silvennoinen.
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