RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Sussurri e grida

Le prime battute strumentali all'alzarsi del sipario sono i cullanti “pizzicati” – quasi l'evocazione di un mondo perduto – dell'ud, sorta di liuto arabo che ci porta subito in medias res, per quanto riguarda l'ambiente moresco sotteso all' Ebrea di Toledo: e che a suonarlo sia Nassib Ahmadieh, proveniente della West-Eastern Divano Orchestra, l'ensemble che riunisce musicisti israeliani e palestinesi, appare il miglior viatico per una vicenda dove le divergenze tra religioni sembrerebbero abissi immedicabili. Eppure, di lì a pochi istanti, il clangore delle percussioni ci trasporta in tutt'altro universo sonoro: il sussurro d'un trasognato lirismo cede il passo al rullare di suoni guerreschi, lo stridore cancella ogni incantamento. Questo transito dalla rarefazione alla densità, dalla grazia soffusa alla tensione insostenibile, accompagnerà dall'inizio alla fine una partitura per l'appunto centrifuga, che presenta da un lato il dispiegamento verso un linguaggio tradizionale – vive presenze tonali, incanalamento sui binari d'un ideale tardoromanticismo – e, dall'altro, il tentativo di eluderlo; ed è una perfetta drammaturgia musicale per un plot che, al di là dei temi politico-religiosi, s'incentra a sua volta su un irrisolvibile dualismo: quello tra i diritti del “privato” e gli obblighi del “pubblico”.

Rappresentata in prima mondiale il 10 febbraio scorso alla Semperoper di Dresda, Die Jüdin von Toledo è il quindicesimo lavoro per il teatro musicale realizzato da Detlev Glanert, classe 1960: uno dei pochi compositori ancora convinti – il successo arriso alla serata gli ha dato ragione – della possibilità di riproporre pure nel Duemila i meccanismi della tradizione operistica. Un autore, dunque, fedele alla musa di una musica narrativa, per certi versi anche materica (in Glanert talvolta dà l'idea di poter essere toccata, oltre che ascoltata, dal pubblico), dove la dimensione canora resta sempre in primo piano nel sagomare i personaggi e farli entrare in dialettica tra loro. Da musicista di fervida sensibilità teatrale e spiccato talento sinfonico-vocale, Glanert ama poi confrontarsi con grandi classici letterari: in passato ha guardato a Fontane, Camus, Thornton Wilder; e ora, con Die Jüdin von Toledo, affronta un testo dalle radici remote (se ne occupò pure Lope de Vega), ma che resta un muro maestro della cultura tedesca grazie al dramma di Grillparzer (1872) e alla novelization fattane nel ventesimo secolo da Lion Feuchtwanger.

Grillparzer resta comunque la fonte primaria del libretto – firmato da uno scrittore importante come Hans-Ulrich Treichel – proprio per l'imprinting ottocentesco della partitura: una sorta di grand-opéra dei nostri tempi, che come La juive (il più immediato termine di paragone, dato il soggetto) e il Don Carlo scandaglia l'interazione tra individuo e Storia, nonché l'annichilimento del primo a opera della seconda. Anche se poi Glanert racconta tutto in due ore di musica, mentre per Halévy e Verdi ce ne vollero più del doppio. Tra asprezze sciostakoviane e una densità vocale da far quasi pensare a un Mahler operistico, l'opera è cadenzata da una serie d'interludi (sulla falsariga del Wozzeck o del Peter Grimes, ma anche memori della funzione degli intermezzi in Puccini e Mascagni) che traghettano l'azione in certi passaggi di black-out narrativo. L'unità di tempo è infatti scompaginata ad arte e tra un atto e l'altro, nonché all'interno dei singoli quadri, passano di volta in volta ore, settimane, mesi; e sono proprio queste parentesi di tempo sospeso – talvolta affidate alla sola orchestra, talaltra al canto – i momenti di più grande magia: fino ad arrivare al coup de théâtre dell'interludio conclusivo, che, grazie a una geniale scrittura contrappuntistica, viene snodato parallelamente all'ultimo, brevissimo atto.

La drammaturgia vocale appare altrettanto risolutiva, anche perché Glanert – come gli operisti di antico conio – per la première di Dresda ha potuto lavorare sulle caratteristiche degli interpreti a disposizione. Ecco dunque il tradizionale soprano coloratura, ben servito dalla limpida vocalità di Heidi Stober, per quell'adolescente all'apparenza prepotente e viziosa, ma in fondo solo fragile e curiosa, che è l'ebrea eponima. Ecco – dopo tale fisionomia canora quasi ottocentesca – la contemporaneità più tagliente: lo Sprechgesang contraltile che dà voce all'inflessibilità della regina Eleonora, affidato a una Tanja Ariane Baumgartner formidabile per appiombo musicale e personalità interpretativa. Ed ecco il mezzosoprano a tutto tondo: la sorella saggia in opposizione alla protagonista imprudente, restituita da Lilly Jørstad con una compostezza che lascia intuire il fuoco sotto la cenere. Mentre Alfonso VIII, re intrappolato dalla ragion di Stato e da un matrimonio senza amore, è un'ideale filiazione – sebbene qui all'insegna del declamato anziché del “legato” – dei sovrani spagnoli in chiave di baritono usciti dalla penna di Donizetti: Christoph Pohl lo incarna con robustezza non disgiunta da innumerevoli sfaccettature e il suo duetto con la Baumgartner in cui deve cedere alle pressioni della consorte – un po' scontro tra Wotan e Fricka, un po' variazione della gran scena tra Macbeth e la Lady – è il momento più emozionante dello spettacolo.

A raffigurare il livido mondo di corte, chiudono le dramatis personae un classico basso-baritono (Markus Marquardt) e un tenore le cui ascensioni acute hanno funzione tutt'altro che eroica, anzi caricaturale (Aaron Pegram). Tutti vengono ottimamente sostenuti dal direttore Jonathan Darlington, che consente la piena intelligibilità di ogni parola, anche quando immersa in un fiume di suono, e ricava dai magnifici strumentisti della Staatskapelle Dresden ora rifrazioni abbacinanti, ora rintocchi allucinati, ora sonorità pulviscolari. Convince meno la parte visiva: forse perché quando si ha a che fare con un'opera nuova il regista dovrebbe fare un passo indietro, riservando gli spostamenti d'epoca e le riletture ideologiche a testi più consolidati per il pubblico.

Robert Carsen firma invece uno dei suoi spettacoli impegnati-patinati: algido nelle scene stilizzate e nei costumi moderni di Luis Carvalho, interessato più ai riferimenti attuali – guerre di religione, femminicidio – che al valore metastorico della vicenda, ostinatamente politically correct nel fare del principe ereditario un bambino anziché un minorato psichico, didascalico nei filmati conclusivi (che rinviano pure ai bombardamenti di Dresda del '45). E che si lascia del tutto sfuggire di mano il rapporto erotico, anatomizzato con gran maestria nel libretto, tra il re e la giovane ebrea.

Paolo Patrizi

21/2/2024

La foto del servizio è di Ludwig Olah.