«Tantum religio potuit suadere malorum»
La juive di Halévy al Regio di Torino
Torino fa le cose in grande. E inaugura la stagione d'opera 2023-24 del Regio, doverosamente zeppa di titoli pucciniani per il centenario della morte del Lucchese, con un titolo che mancava dal 1885. Puccini, per stare in tema, aveva completato la sua prima opera l'anno prima; e La juive di Fromental Halévy, su libretto di Eugéne Scribe, calcava le scene del Regio (rigorosamente in italiano, con traduzione di Marco Marcelliano Marcello) per l'ultima volta. Fino a quest'anno, almeno (in francese); si recensisce qui la sesta e ultima recita di martedì 3 ottobre 2023.
Un ritorno che non ha mancato di sollucherare i cercatori di tesori operistici, per quanto il titolo non sia di così rara esecuzione in altre parti del mondo, e di incuriosire una gran fetta di pubblico nostrano, che si è dovuta confrontare con un mastodonte, al netto dei tagli (grosso modo una parte dell'Ouverture, un coro e il balletto nel primo atto – un valzer –, un altro coro e una parte del battetto nel terzo, il coro d'apertura del quinto, diverse ripetizioni delle strette nel terzo, quarto e quinto), di oltre quattro ore, malauguratamente compresse in due blocchi da due con un solo intervallo tra secondo e terzo atto – e di atti ce ne sono cinque, come nella miglior tradizione del grand opéra francese, con tanto di balletto al terzo atto, qui scorciato a soli tre numeri ma sufficienti a dare un'idea della grandiosità d'impianto. Detto tra noi, si poteva organizzare meglio, facendola iniziare prima e contemplando almeno un intervallo in più. Ad ogni modo, fatta salva la resistenza dello spettatore medio, quello che si schiude è un panorama ricco e variegato di temi, melodie, di trame (il plurale è d'obbligo, venendo a intrecciarsi la trama pubblica, storico-sociale, con quella privata amorosa), il tutto immerso in un suono orchestrale lussureggiante, di sapiente e originale strumentazione – si segnalano due chitarre per la serenata di Léopold e un'incudine come suono realistico. Non è un caso che abbia ricevuto gli elogi di un noto bastian contrario come Wagner (meno comprensibile invece è come non sia piaciuta a Bellini). Una produzione che ha voluto puntare in alto sia nell'impianto registico, sia nella scrittura di nomi di rilievo. A cominciare da Daniel Oren, che di quest'opera è profondo conoscitore, avendola già diretta altre due volte (Londra 2006 e Parigi 2011), e che intrattiene con essa, per via della kippah che porta in testa, un legame affettivo particolare: «[…] sono molto toccato da La juive, dove il contrasto fra le religioni […] è messo in risalto dalla musica di Halévy» dichiara al microfono di Susanna Franchi. Quando la sua perizia si fonde con la qualità di suono, sempre impeccabile, dell'Orchestra del Regio, il risultato è garantito, e costituisce uno degli aspetti più riusciti della recita: un suono pieno e coeso, ma all'occorrenza venato di intimismo, sotto una direzione duttile, grazie alla quale viene evitato l'ingessamento di una certa statuarietà congenita dell'opera, duttilità che le infonde il dinamismo necessario a non trasformarla in un indigesto polpettone da trangugiare in due bocconi, primo e secondo tempo. Il rischio c'era: ed è stato in gran parte evitato.
Parimenti di gran livello il cast. La coppia di soprani è stata scelta ad hoc per coglierne appieno la differenziazione timbrica, così come era stato fatto per la première (Parigi, Théâtre de l'Académie Royale de Musique, Salle Le Peletier, 23/02/1835), quando Rachel venne interpretata da Marie-Cornélie Falcon e la principessa Eudoxie da Julian-Aimée-Josèphe Dorus-Gras. Il timbro più scuro, a suo agio lungo un'estensione di quasi due ottave e mezza della prima, che com'è noto ha inaugurato e inquadrato una variante peculiare di soprano (il soprano Falcon, appunto), si riverbera nelle qualità di Mariangela Sicilia, estrinsecabili in una tecnica agguerrita per guadagnare, senza sporcarlo, il registro grave (molto ben fatto l'attacco della romanza del secondo atto Il va venir!), e per dominare quello acuto, dove si produce in filati di suggestivo nitore e lucida proiezione, che colpiscono per l'omogeneità e per il suono delicatamente sfumato. Valida anche nei momenti in cui la sceneggiatura le impone di farsi più determinata: al disvelamento della storia d'amore con Léopold (terzo atto) il peso drammatico del suo canto sale e la sua recitazione si impone per sensibilità e convinzione. Quanto alla principessa Eudoxie, si riveste dell'ottima voce di Martina Russomanno: il suo timbro, in accordo con quanto detto sopra, è più chiaro, la sua vocalità più elastica, sostenuta anche qui da un'ottima tecnica che le consente di flettersi nella souplesse di aggraziati virtuosismi dai quali traspare tutta la sensualità del personaggio (sottolineata anche dal physique du rôle dell'interprete, che non guasta), ma pure, al quarto atto, la dolenzia della donna innamorata prossima a perdere il suo sposo grazie a una convincente recitazione (duetto Rachel-Eudoxie), che riequilibra la sua esornatività un po' fatua nel contesto drammaturgico.
Sul versante maschile si registra la buona prova di Ioan Hotea quale Léopold. Il ruolo che lo vede impegnato è improbo, erto di acuti (molti Do e persino un Re sovracuto, un ruolo pensato per il suo primo interprete, Marcelin Lafont): nonostante ciò, Hotea si tiene saldo in sella al suo impervio pentagramma grazie a una voce non molto corposa ma espressiva, che gli fa disimpegnare degnamente la parte. Meno convincente si presenta invece il Cardinale Brogni di Riccardo Zanellato. Il timbro è bello, nobile, brunito, il canto è levigato, ma non risuona nei gravi autoritario e solenne come vorrebbe il personaggio, che, costruito per Nicolas-Prosper Levasseur, deve «versare il color nero del basso profondo in un fraseggio aristocratico» (Cabourg). Sul fraseggio aristocratico ci siamo; sul color nero, molto meno; e tuttavia su di lui non ci si sente di essere così manichei, ché negli accenti ove si riaccende l'ignaro amor paterno del Cardinale, drammaturgicamente affine a quello di Montfort per Henri nei Vêpres verdiani, vibra la corda di una voce modulata ad arte e compenetrata nel ruolo; incisività che purtroppo si perde nella scena dell'anatema.
Una lezione di stile arriva dall'Éléazar dell'inossidabile Gregory Kunde, che a quasi settant'anni debutta in uno dei ruoli tenorili più complessi dell'intero repertorio francese. Fanatico della fede come il Giacomo della Giovanna d'Arco, che come lui non esita a mandare a morte sua figlia per motivi religiosi, del pari padre affettuoso alla Rigoletto, Éléazar richiede una gamma di sfumature espressive particolarmente opima. Unendo una straordinaria potenza di voce, una carnosità timbrica invidiabile, un'esperienza pluriennale e un fine studio psicologico del personaggio, Kunde dà vita e corpo a un Éléazar pregnante, elativo, iconico, capace di passare dal raccoglimento della preghiera a cappella Dieu de nos pères (atto secondo), dalle scoperte insidie musicali quando s'intreccia con le altre voci, al furore con cui scolpisce quel «Chrétien!», prescritto proprio dal libretto: avec fureur, quando scopre che Samuel, in realtà il principe Léopold, non è di religione ebraica. Che Rachel, quand du Seigneur strappasse alla platea un prolungato ed entusiastico applauso, scena vista anche in altre recite, era prevedibile (vi sono stati infusi tanta pertinenza espressiva, tanto trasporto e un fraseggio tanto cesellato, che sarebbe stato impossibile il contrario); che gli stessi applausi si ripetessero a fine recita, anche; ma sarebbe stato da applaudire ogni suo intervento, tanto diversificato e ben fatto è stato eseguito, ciascuno volto a riflettere un aspetto diverso del personaggio (un personaggio dal profilo a tratti dicotomico, difficile a tratteggiarsi con unità).
Validissimo il comprimariato: Gordon Bintner (Ruggiero), Daniele Terenzi (Albert), Rocco Lia (Araldo), già apprezzato in veste di solista in scorse produzioni del Regio, Leopoldo Lo Sciuto e Andrea Antognetti (Ufficiali dell'imperatore), Lorenzo Battagion, Alessandro Agostinacchio, Roberto Calamo e Andrea Goglio (Uomini del popolo), tutti e quattro in forze presso il Coro del Teatro Regio. Coro che, accuratamente preparato da Ulisse Trabacchin, si configura anche stavolta come una compagine di notevole valore artistico.
Tutto bene, quindi. Sì, quando non si voglia considerare la regia. Stefano Poda, che firma anche coreografie, scene e costumi, prevede per questo allestimento metaoperistico, come suo solito, un dispiegamento di mezzi non inferiore a quello che avrebbe richiesto per uno didascalico. Ma non gli si può chiedere una regia didascalica; non a lui; non a uno che non concepisce le regie se non come grandiosi apparati scenici belli (e poi ancora…) a vedersi, ma tangenti solo di striscio l'opera per cui sono pensati (vedi la recente Aida veronese). Non che non abbia un senso; il concept c'è. Al fondo, in alto, l'esametro lucreziano Tantum religio potuit suadere malorum (da leggersi Tàntum rèligïò – pòtuit suadère malòrum): «a cotanto male poté condurre la religione», in riferimento, nel De rerum natura, al sacrificio di Ifigenia. Sotto questa scritta cadono, o meglio, piovono, figure di Christus patiens; al centro si staglia un'enorme croce latina dal profilo illuminato a led, che inizia a fumigare nelle scene più intense. Davanti a questo sfondo fisso prendono corpo ambientazioni astratte, alcune riconducibili (con molta fantasia, qualora si abbia chiara la trama) ai luoghi del libretto, altre no. Nel secondo e quarto atto il palcoscenico si sdoppia, richiamando la disposizione classica della scena ultima di Aida. Al secondo atto questo stratagemma serve per inscenare, al di sotto, la bottega di Éléazar, che festeggia la Pasqua ebraica: tutti gli ebrei in tuniche bianche, tutti raccolti da uno stesso lato di un lungo tavolo centrale, a intonare la preghiera a cappella summenzionata – una scena che potrebbe benissimo essere riciclata per il primo atto del Parsifal –; dietro di loro, venti teche contenenti dei collier, a significare l'attività di orafo/gioielliere del padrone di casa. Al di sopra, una messe di figuranti mimano scene evangeliche al rallentatore, con un Cristo anch'esso in tunica bianca che torna più volte anche in altre scene (Tomaso Santinon). Nel quarto, lo sdoppiamento serve a ricreare il carcere nel quale è stata tradotta Rachel: esso si presenta addobbato da una numerosa serie di lividi manichini appesi a testa in giù (il supplizio? La raffigurazione di un mondo al contrario, una casa di morti, dal sottosuolo, di dostoevskijana memoria? Una bizzarria al confine col nonsense ?). Sdoppiamenti di palcoscenico che incorniciano l'atto terzo, dove l'appartamento di Eudoxie è reso con un grande telo rosso in terra, successivamente raccolto dal fondo. Perché poi Eudoxie debba vestire con corpetto rosso e pantaloni in pelle aderenti, rimane da indagare – forse per sottolineare la bellezza provocatoria e un po' volgare della principessa. Condiamo il tutto con riferimenti simil-biblici, come il Cristo-figurante già ricordato o una processione in cui altri figuranti portano, chi una croce bianca, chi una stella di David bianca, sorta di via crucis simbolica delle due religioni, e il gioco è fatto, assieme a simboli atti solo a distrarre, come un grande “astrolabio” che cala dall'alto, a volte fermo, a volte in movimento nei suoi scuri cerchi concentrici. L'atto quinto sfugge alla comprensione, senza riferimenti. Anche l'arte tersicorea viene omaggiata in modo piuttosto sommario, con coreografie esagitate, fatte di salti e corsette isteriche, con un corpo di ballo sì preparato, ma piegato a fantasie strampalate, dove il mimare il segno di croce a ritmo di marcia è forse la più normale. Una regia alla Poda, insomma: lambiccata, pretenziosa, sovrastrutturata, inutilmente grandiosa, distraente, scomoda… podalica… eppure, a quanto pare, in grado di suscitare consensi quasi come il cast ed Oren, accolti a fine recita dagli applausi di una sala, tocca registrare, molto distante dal tutto esaurito.
Christian Speranza
8/10/2023
Le foto del servizio sono di Andrea Macchia.