RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


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  Ad Anversa La Juive è diversa

Il grand opéra francese, che discende dai lombi spontiniani (per non risalire più indietro), si afferma verso la fine degli anni Venti dell'Ottocento con La Muette de Portici di Daniel Auber (Parigi1828), emulata a breve distanza dal rossiniano Guillaume Tell (Parigi 1829). Ma è a partire dal decennio successivo che il genere spicca più ampie le ali, grazie alla geniale “ingegneria” drammaturgica del librettista Eugène Scribe, imponendosi in particolare per merito di Giacomo Meyerbeer. Attivo in quest'area fu anche il futuro suocero di Georges Bizet, Jacques Fromental Halévy (1799-1862), e non da gregario. Tant'è vero che la sua Juive , andata in scena con enorme successo all'Opéra di Parigi il 23 febbraio 1835, costituì assieme a Les Huguenots del Berlinese, tenuti a battesimo sulla stessa scena l'anno seguente, il tandem emblematico a livello internazionale del genere, alla cui patente di nobiltà avrebbero poi contribuito non marginalmente sia Donizetti che Verdi. Genere squisitamente francese, proprio in Francia è da gran tempo negletto, ma sopravvive con maggior fortuna altrove. In ogni caso, dopo la non proprio memorabile edizione parigina dell'Opéra Bastille del 2007, La juive è in scena a Nizza in questi giorni e la stagione ventura verrà data a Lione in concomitanza con un'edizione prevista a Norimberga. La “temeraria” Fenice di Venezia la diede in versione originale dieci anni fa.

La vicenda non indulge in eccessive complicazioni. A Costanza, all'epoca del Concilio (1414), Rachel, figlia dell'orefice ebreo Éléazar, ama riamata il principe Léopold, che è al seguito dell'imperatore germanico Sigismond e si è introdotto sotto mentite spoglie in casa dell'orefice spacciandosi per israelita. Ma Léopold è promesso sposo della principessa Eudoxie e non può sostenere fino in fondo la falsa identità. Tenta di persuadere Rachel, che gli si è concessa, a fuggire con lui, ma non è che un proposito velleitario. Rachel allora rivela pubblicamente che Léopold ha avuto rapporti con lei, un'ebrea, e ciò, nel clima della mal tollerata presenza degli ebrei, espone tanto lei che Léopold ma anche Éléazar alla condanna a morte. Per amore però Rachel ritratta l'accusa. Il cardinale Brogni, presidente del Concilio, che, vorrebbe sottrarla alla condanna a morte inducendola inutilmente alla conversione, scopre troppo tardi che Rachel è sua figlia, perduta anni prima a Roma e raccolta e allevata come propria da Éléazar. Nel momento in cui la fanciulla viene scaraventata nella vasca di olio bollente, l'orefice, che si appresta a subire la stessa pena, rivela all'esterrefatto cardinale la vera identità di Rachel, sfogando così un'atroce vendetta contro i cristiani persecutori del suo popolo. Halévy, ebreo come Meyerbeer, non compie sforzi notevoli per indurci a simpatizzare per Éléazar, inflessibile e implacabile quanto il più ambiguo cardinale in un mondo in cui del resto le identità e le fedi di appartenenza si scontrano irrimediabilmente e in maniera cruenta non lasciando un margine qualsivoglia alla solidarietà umana. Nella Juive, a quanto pare, è Rachel l'unico personaggio positivo.

Scarsa fortuna arrise purtroppo, dal ricalco “camuffato” del librettista catanese Giacomo Sacchero (zio di una bisnonna dello scrivente), a L'ebrea del concittadino Giovanni Pacini, la quale, dopo il modesto battesimo alla Scala di Milano nel 1844, concluse la carriera con l'unica ripresa di Barcellona nel 1848.

Ho assistito a due rappresentazioni della Juive al Koninklijke Operaschouwburg (Opera Vlaanderen) di Anversa , il 29 aprile ed il 6 maggio. Sotto l'aspetto del grand opéra quest'edizione è grandoperistica in una parte più e (assai) meno altrove. Tagli significativi hanno considerevolmente accorciato i cinque atti dello spettacolo (ridotto così a tre ore e mezzo, compreso l'unico intervallo, quasi la durata di un film di Theo Angelopoulos), eliminando tra l'altro l'ouverture, la serenata di Léopold , il bolero di Eudoxie e il balletto. Il fasto scenografico di grandiose ricostruzioni storiche con sontuosi costumi (quelli della prima parigina impressionarono vivamente lo spettatore Donizetti) è del tutto assente, se si eccettua la preziosa policromia del grande rosone e delle bifore da cattedrale del fondale, mentre i costumi rimandano alla quotidianità attuale, poiché il tragico destino di Rachel si svolge in maniera plausibile in questa nostra epoca. L'arredamento scenico è ridotto al minimo: qualche pedana, il letto nella camera di Eudoxie in cui dorme Léopold mentre Rachel e la principessa dialogano, la tavola della cena pasquale in casa dell'orefice, la scala infine del supplizio di Rachel ed Éléazar. Una serie di strutture metalliche tubolari a torre, variamente disposte, delimita anzi rinchiude la scena a mo' di inferriate carcerarie. Scene e costumi si devono al tedesco Johannes Leiacker, che è ormai di casa all'Opera Vlaanderen.

Il suo connazionale Peter Konwitschny ha arginato la “magniloquenza” connaturata nel grand opéra concentrandosi sul dramma vivo, fatto di certezze apparenti e di contraddizioni sommerse, con eloquenti immagini di ordinaria quotidianità per un pubblico che legge giornali e guarda la televisione. Il coro, tutt'altro che statico, invade addirittura la platea, infiltrandosi tra gli imbarazzati spettatori delle prime file, quando deve inneggiare con fanatico zelo al Concilio (del quale, una volta che il Cardinale ha voltato le spalle, può senza ritegno inscenare una parodia blasfema a spese di Éléazar e Rachel), o schernire con la più virulenta insolenza di massa ondivaga il padre e la figlia, appartenenti ad un popolo esecrato. Ma non tutto il bianco è da un lato ed il nero dall'altro. È così che nel movimentato finale terzo coro e aborriti ebrei si mescolano in una catena di produzione di cinture esplosive. Una di queste viene poi indossata dalla disperata Rachel. Quando si incontrano Eudoxie e Rachel non possono impedirsi di fraternizzare e l'una si toglie i guanti azzurri, l'altra i guanti gialli, scavalcando in tal modo, per un istante, la barriera che le separa. Il Cardinale a sua volta è spinto da un oscuro moto di benevolenza verso Rachel, ma la benevolenza di Brogni resta, ahimè, come il seme caduto sulla pietra: non dà frutti di misericordia cristiana.

Il doppio cast si è dimostrato nell'insieme di prima scelta. Il ceco Tomás Netopil ha diretto 7 delle undici recite, ripartite tra Gent e Anversa, e l'ex direttore del coro Yannis Pouspourikas le restanti. A me sono toccati entrambi i cast. La direzione di Netopil, dalla quale non si è sostanzialmente differenziata quella di Pouspourikas, ha tenuto saldamente le redini della vigorosa Symfonisch Orkest dell'Opera Vlaanderen, imprimendo lo slancio e l'intensità necessari alle grandiose scene pubbliche e curando e differenziando abilmente i toni dei vari momenti nel privato con un buon rapporto tra golfo mistico e palcoscenico. Nel grandioso dei massicci insiemi e nell'appassionato delle scene intime l'avvincente ispirazione musicale e la maestria orchestrale di Halévy sono state degnamente servite, grazie anche agli interpreti dei due cast. Onore anzitutto al basso russo Dmitry Ulyanov, che nell'arco di diciotto giorni ha cantato in tutte le undici recite. Il suo Cardinale Brogni è solido, autorevole, convincente. I due soprani che hanno impersonato Rachel, la lituana di origine armena Asmik Grigorian e l'israeliana Gal James si equivalevano tutto sommato nel disegnare con strenua tensione emotiva e pregnante espressività vocale le speranze e i tormenti della protagonista. Ma se Rachel è la titolare a tutti gli effetti, il ruolo predominante resta quello di Éléazar sin dal suo creatore sulla scena, Adolphe Nourrit, che anzi collaborò alla concezione dell'opera e contribuì alla stesura del libretto (suoi sono i versi della celeberrima aria 'Rachel, quand du Seigneur'). I due tenori, l'italotedesco Roberto Saccà e il francese Jean-Pierre Furlan, già con l'aspetto fisico diversificano il personaggio che incarnano. Saccà ha uno strumento più robusto ed è veemente e sanguigno, mentre Furlan è più scenicamente Éléazar. Sono entrambi formidabili e si impongono sul traguardo dell'aria e della cabaletta dell'atto IV (eseguite in platea), offrendone nella diversità dei rispettivi strumenti una commossa interpretazione. Sull'elegante Léopold del tenore statunitense Randall Bills ha prevalso quello più corposo e sicuro del connazionale Robert McPherson, mentre tra le due Eudoxie, il match USA-Russia ha visto la russa Elena Gorchunova prendere il sopravvento sulla pur brillante americana Nicole Chevalier del primo cast. Non resta da menzionare, tra i solisti, che l'egregia prestazione del baritono britannico Toby Girling quale vivace e spavaldo Ruggiero.

L'imponente coro della Casa si è magnificamente messo in evidenza nei numerosi interventi e con ammirevole versatilità scenica. Il nuovo maestro del coro , l'austriaco Jan Schweiger, può essere soddisfatto del lavoro effettuato. Nelle mie due sere restava solo qualche poltrona vuota e, non contando gli applausi a scena aperta, il pubblico non ha lesinato il proprio entusiasmo alla fine.

Fulvio Stefano Lo Presti

22/5/2015

Le foto del servizio sono di Annemie Augustijns.