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45° Festival della Valle d'Itria

Ecuba

Uno dei due titoli più attesi del Festival era l'Ecuba di Nicola Antonio Manfroce, morto giovanissimo e che con quest'opera un anno prima della morte riscosse un grandissimo successo a Napoli. Titolo fortemente voluto da Fabio Luisi che lasciava a metà delle prove per motivi di salute e funestato anche dalla malattia di Carmela Remigio, che forse rientrava per la seconda recita.

In ogni caso, e a parte i valori della recita in sé, non ho particolarmente apprezzato la partitura. È vero che guarda a Spontini, ma non lo è. Il libretto è un testo impossibile di Giovanni Schmidt che fa ridere più di una volta, e il soggetto ovviamente non è comico: “di rose porporine/a lei s'adorni il crine” (coro, atto secondo) è l'esempio più ovvio ma non il peggiore... Se poi abbiamo un'aria con arpa per le smanie di vendetta della protagonista (pure atto secondo) il musicista sarà stato bravo ma dal punto di vista drammatico non è che si tratti di un fulmine. Di davvero bello da tutti i punti di vista ho trovato solo il quartetto (scena VII del secondo atto). Se vogliamo parlare del finale sembra davvero un lavoro incompiuto (quando non lo è) e per niente del tipo di Michelangelo. Degna di un Festival la proposta di rispolverare un titolo importante per vari motivi, ma non credo proprio che ci sarà un prossimo tentativo di ripresa neanche in un Festival.

La messinscena di Pier Luigi Pizzi (non troppo bene accolta alla prima) mette in rilievo il bravo scenografo e costumista ma un regista poco o niente interessante. Difatti si trattava poco più di una di quelle versioni di concerto che si chiamano adesso semiscenificate. Difficile comunque l'impresa. Il maestro Sesto Quatrini ha preso in mano l'opera all'ultimo momento e ha fatto un buon lavoro, anche se l'orchestra del Petruzzelli di Bari non si può dire di grandissimo livello. Bene il coro del Teatro Municipale di Piacenza preparato da Corrado Casati.

La protagonista della giovanissima (non di aspetto) Lidia Fridman aveva il merito di una grande sicurezza e vantava un'ottima preparazione. Né timbro né acuti sono particolarmente interessanti. Meglio la Polissena di Roberta Mantegna, che però si dimostrava più affine a un repertorio posteriore e non di rado la voce suonava molto metallica. Bene la Teona di Martina Gresia. I ruoli più difficili vocalmente, a parte Polissena, sono i due uomini, a quanto si sentiva due baritenori. Sicuramente lo è l'Achille. Norman Reinhard aveva dei bei momenti ma il timbro non era sempre a fuoco. Nel ruolo del vecchio padre Priamo (tenore come d'abitudine e a quanto pare anche un baritenore) Mert Süngü dimostrava di avere una bella voce lirica e all'inizio per il resto era insufficiente ed esile. Migliorava cammin facendo per finire con un buon atto terzo, dove per fortuna si trova la sua aria più difficile. Corretto il duce greco di Alfonso Zambuto, allievo dell'Accademia di Belcanto ‘Rodolfo Celletti'. D'interpretazione, tra musica, testo e regia, non è proprio il caso di parlare.

Jorge Binaghi

7/8/2019

La foto del servizio è di Clarissa Lapolla.