RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Gotico concettuale

Lucia di Lammermoor è un'opera sotto il segno del maschilismo. Alla protagonista viene sottratta autonomia decisionale, ogni sua scelta è frutto di un'imposizione altrui: il fratello la minaccia; il padre spirituale le ingiunge obbedienza all'insegna del Deus vult; perfino Edgardo forza le decisioni di Lucia, grazie all'irruenza di un amore che non ammette “se” e “ma”. Pure la storia dell'interpretazione ribadirà tale prospettiva legittimando le Lucie affidate a soprani leggeri, chiare nel timbro, flebili nell'accento, più bamboleggianti che angelicate: un dolce usignolo meccanico, che imprimendo retrogusto infantile al personaggio ne sancisce l'immaturità e rende più comprensibili, in qualche misura, le angherie dei suoi oppressori. E anche la scelta donizettiana di lasciare a Edgardo l'onore dell'epilogo, negando alla pazzia della protagonista la collocazione statutaria di gran finale, stempera (solo parzialmente, certo) la portata tragica del soprano, instaurando una drammaturgia più “tenorecentrica”.

Regista di prosa e opera tra i più interessanti della vecchia guardia tedesca, pressoché ignoto al pubblico italiano, Dietrich Hilsdorf ha consapevolezza di tutto questo: ma è uomo di teatro troppo acuto e originale per cadere nel luogo comune della Lucie vittime predestinate, circondate da ambienti truculentemente patriarcali. La sua Lucia di Lammermoor alla Semperoper di Dresda – una produzione che si continua a replicare con immutato successo da alcuni anni – ripropone, sì, un microcosmo rigido e violento, dove a una fanciulla è dato solo d'integrarsi o annichilirsi; tuttavia lo fa non affidandosi a un realismo romantico, ma restituendo un Ottocento concettuale che, senza sminuirne la pericolosità, stempera le virulenze di quel mondo (coristi e figuranti, anche quando armati, sono ectoplasmi cristallizzati dalla vecchiaia e dal perbenismo) e, semmai, mostra delle donne – Alisa e le sue compagne – ancor più perfide e maschiliste degli uomini. In questo, ha trovato decisiva collaborazione nello scenografo Johannes Leiacker (un'unica, “mentale” scatola scenica subentra ai tanti diversi luoghi previsti dal libretto) e nella costumista Gesine Völlm (dei costumi che sono a loro volta veri e propri personaggi).

Ne scaturisce una narrazione insieme gotica e psicanalitica, dove il totalizzante nero degli abiti viene interrotto solo dal rosso del sangue e dal bianco lattiginoso delle luci al neon. Aggirantesi in un palcoscenico semivuoto con pochi oggetti ad alta densità semantica (il letto, il tavolo…), Lucia suona quasi come un'equivalente femminile di certi protagonisti kafkiani: sotterraneamente complice, cioè, con l'incubo che le è toccato in sorte. Enrico Ashton, a sua volta, appare assai meno vilain della tradizione, ma semmai schiavo della bottiglia e manipolato da Normanno. Raimondo Bidebent, lungi dall'essere quel sacerdote consolatorio voluto dalla prassi esecutiva, si rivela l'autentico Machiavelli del raggiro. Quanto ad Alisa, diventa quasi il surrogato della madre di Lucia: che nel romanzo di Walter Scott era la sua prima angariatrice, sebbene il libretto di Cammarano la dia invece per morta. Ed è un autentico colpo di teatro vederla orchestrare insieme alle altre damigelle – sulle prime note del preludio – la lugubre messa in scena del fantasma nella fontana, poi descritto nella cavatina Regnava nel silenzio: un modo per turbare la mente della protagonista, e spianare la strada alla sua follia.

In tale contesto, Ruth Iniesta appare ammirevole: la vocalista è più corretta che spericolata, e le variazioni non sono particolarmente attraenti, ma plasma un personaggio ideale per quel belcanto oscuro e antiesornativo che è la diretta conseguenza di una simile messinscena. Soprano lirico flessibile anziché siderale usignolo meccanico, calibra perfettamente – grazie alla regia di Hilsdorf – ogni gesto sulla musica: resterà nella memoria quel bicchiere di cristallo che frantuma in mano, in un nuovo rivolo di sangue che si assomma a quello della veste nuziale, al termine di Spargi d'amaro pianto. Un modo di uccidersi insieme alla musica, visto che questa produzione – in linea con la scelta originaria di Donizetti – nella scena della pazzia fa dialogare il canto con l'armonica a bicchieri, anziché con il flauto.

Gli interpreti maschili sono, in primo luogo, esemplari per pronuncia e dizione. Bekhzod Davronov è un Edgardo di voce fresca e smaltata unita a un canto soave e composto, dal piglio tenorile più malinconico che solare (siamo nei paraggi di Carreras, piuttosto che di Pavarotti). Baritono di timbro chiaro e impasto lirico, Neven Crnic plasma a sua volta un Enrico lontano dal canto fosco e trucibaldo degli interpreti tradizionali: punta, piuttosto, sui recitativi ben scolpiti e un fraseggio di scavata introversione; mentre il lato tenebroso del personaggio, uscito dalla porta vocale, rientra attraverso quella attoriale. Peter Kellner è basso di emissione rotonda ma non troppo soffice, come si addice a un Raimondo compassionevole nella facciata e spietato nella sostanza: Hilsdorf ne fa un vero coprotagonista, millimetrico nelle controscene e quasi sempre in palcoscenico (la sua presenza muta trasforma il duetto Enrico-Lucia, di fatto, in un terzetto); e, in questa prospettiva, il baricentro del ruolo diventa non più il commovente racconto Dalle stanze ove Lucia, ma la farisaica predica Al ben dei tuoi. Il secondo tenore – Omer Kobiljak – incarna uno sposino squillante nell'entrata e sonoro nel sestetto, insomma un Arturo pronto per il salto di categoria a Edgardo. La regia lo trasforma in un dandy spaccone, alla resa dei conti agnello sacrificale non meno di Lucia: sicché il suo cadavere in scena porterà i segni evidenti di una castrazione.

Detto che Alisa e Normanno sono personaggi a loro volta curatissimi dal regista, ma ai quali Ewa Zeuner e Gerald Hupach offrono modeste attrattive canore, resta il direttore Roberto Rizzi Brignoli. Il quale, avendo a disposizione un'orchestra meravigliosa come la Staatskapelle di Dresda, trova ovviamente la strada spianata. Dispiace, però, una certa trascuratezza nel pungolare i cantanti sul piano stilistico (un tenore corretto e un baritono scorrevole come Davronov e Crnic avrebbero potuto eseguire benissimo i sobri, occasionali abbellimenti richiesti da Donizetti) e, con essa, la mancanza di una lettura realmente idiomatica: gli slanci primoverdiani impressi alla sfida tra Edgardo ed Enrico non convincono, proprio per la fisionomia vocale più lirica che drammatica dei due artisti in questione.

Paolo Patrizi

8/5/2025

La foto del servizio è di Sebastian Hoppe.