RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

Umano, troppo umano…

Il mondo di Sofocle è popolato da uomini e donne schiacciati da un fato ineluttabile, da un destino già segnato prima della loro stessa nascita, una sorta di DNA sul quale è inciso, più o meno come l'odierno patrimonio genetico, quale sarà la loro vita, quali ostacoli incontrerà, quale sarà la malattia morale che li affliggerà nel corso della loro esistenza, al di là e prima di ogni colpevolezza o merito. Sono personaggi umanissimi, divisi tra la vita reale e il destino contro il quale nulla possono, un destino che li raggiungerà e li colpirà nonostante tutti i loro sforzi: irrisolto il dissidio tra l'uomo e il fato, o tra l'uomo e la divinità, altro non rimane loro se non la coscienza di un' incolpevole colpevolezza, ma una coscienza che può svilupparsi lentamente, lungo il cammino della vita, e il cui emergere altro non è che l'approdo finale di una ricerca della verità umana che dura tutta un'esistenza.

Su questa moderna atemporalità dell'eroe sofocleo ruota l'interpretazione che la Compagnia Mauri Sturno ha offerto dell'Edipo del grande tragediografo, portando in scena sia l'Edipo Re che l'Edipo a Colono allo Stabile di Catania, dal 22 al 30 aprile. Lo spettacolo, una ripresa a vent'anni di distanza della prima rappresentazione dei due capolavori di Sofocle ad opera della stessa compagnia, giocava registicamente su due registri diversi, proponendo per l'Edipo Re una regia, firmata da Andrea Baracco, cupa e segnata da una sorta di disfacimento che permeava tutto il palcoscenico, con un fondale quasi rugginoso dal quale uscivano i protagonisti, e una pozzanghera, creata da una pioggia che cadeva all'aprirsi del sipario, che gli attori erano spesso costretti ad attraversare, sorta di acqua lustrale nella quale Edipo cerca forse un'impossibile purificazione, e che bagnando le vesti di Giocasta sino al ventre rimandava probabilmente a quell'amnio che avvolse la nefasta nascita di Edipo. Cupi anche i costumi, decisamente moderni, a significare a un tempo l'atemporalità di Edipo e il buio che attanaglia la sua coscienza per tutta la tragedia.

Una lucentezza abbagliante era invece il segno distintivo dell'Edipo a Colono, la cui regia era curata dallo stesso Glauco Mauri: bianche le vesti dei coreuti, che emergendo dai mantelli bianchi si tramutavano nei personaggi secondari, tenui colori pastello per Antigone e Ismene, ma il senso della Grecia classica era onnipresente, quasi a segnare quel lungo processo di acquisizione della verità, il cui termine greco, aletheia, suona heideggerianamente come disvelamento, emergere di ciò che è nascosto nella luce sfolgorante della radura di un bosco, metafora dell'illuminazione che sola può lasciare intuire per un attimo la verità.

Una compagnia di prim'ordine ha recitato entrambi i lavori, da Ivan Alovisio a Roberto Manzi, da Laura Garofali a Barbara Giordano, da Laurence Mazzoni a Mauro Mandolini. Roberto Sturmo, protagonista dell'Edipo Re, dove Glauco Mauri si riservava il ruolo di Tiresia, ha dato vita a un eroe disperato, inconsapevole, turbolento a tratti, immerso in un'oscura ignoranza il cui progressivo diradarsi gli permetteva di slargare la sua recitazione ai più toccanti accenti della rabbia prima, del dolore poi e infine dell'apatica rassegnazione. Glauco Mauri ha tratteggiato invece l'Edipo ormai sereno, docile al fato ma assolutamente conscio della propria innocenza, del suo non essere colpevole, perché non consapevole, dei delitti accumulati nella sua esistenza. Il grande attore ha scolpito un personaggio umanissimo, riuscendo in maniera magistrale anche a usare le debolezze della sua ormai avanzata età a tutto vantaggio del delineare in modo quanto mai efficace il suo Edipo, prestandogli il passo incerto, la voce incerta ma non ancora logorata, la mimica accentuata dalle rughe ma forse per questo molto più incisiva, restituendo al pubblico che lo ha osannato un uomo provato da un'esistenza di dolore, dalla coscienza che le sue inconsapevoli colpe non si esauriranno con lui, ma uomo nonostante tutto, con i suoi affetti e i suoi rimpianti, la cui cecità si è infine tramutata in un occhio lungo che gli consente forse, finalmente, di comprendere anche il volere della divinità.

Giuliana Cutore

2/5/2017