Mosè, il segno dell'oratorio
Affidare a un artista visivo le scenografie di una nuova produzione sta diventando un orientamento sintomatico nel teatro lirico di oggi. Da Arnaldo Pomodoro a Mimmo Paladino, da Valerio Adami a Giulio Paolini, sono ormai parecchi in Italia i Mozart, i Rossini, i Wagner restituiti dalle lenti della scultura, dell'incisione e dell'installazione piuttosto che dall'antica sapienza degli scenografi bozzettisti; e anche in Germania, terra più propensa al Konzept che al senso estetico, la cosa sta prendendo piede, come dimostrano l'ultimo Parsifal di Monaco e l'ultimo Lohengrin di Bayreuth. Come sempre avviene, rispetto alla tradizione qualcosa si guadagna e qualcosa si perde: ma forse, semplicemente, bisogna rassegnarsi all'idea che il melodramma, dopo quattro secoli di storia, a molto pubblico di oggi appare più un documento che una forma d'arte (al cinema sta già accadendo dopo solo un secolo di vita) e per rivitalizzarlo occorre battere nuove strade. Il cubano José Yaque è un artista emergente, non ancora storicizzato come i nomi prima citati: tanto più stimolante, dunque, la scelta del Teatro Verdi di Pisa d'affidare a lui (con la collaborazione di una “vera” scenografa e costumista come Valentina Bressan) l'impianto visuale di un'opera drammaturgicamente statica – ma tutt'altro che stagnante – come Mosè in Egitto, sperimentalissima osmosi tra melodramma e oratorio per la quale Rossini preferì parlare di “azione tragico-sacra”. E, in effetti, ciò che dà impulso alle immagini di Yaque sembra proprio la fissità della tragedia, vista come antitesi alla mobilità del dramma: la dimensione scultorea ma antimonumentale dell'opera (la grandeur riguarderà il successivo Moïse et Pharaon) viene restituita in un plastico e stilizzato gioco di materiali poveri sprigionanti energia e trasformazione, in cui bastano poche colonne sghembe per evocare la reggia egiziana come l'accampamento ebreo e dove è sufficiente un telo azzurro a raccontare l'aprirsi e il richiudersi delle acque del Mar Rosso.
In mancanza d'un incisivo lavoro di regia (Lorenzo Maria Mucci firma sul programma di sala tre fitte pagine di note registiche, ma, a vedere poi lo spettacolo, di tanta densità concettuale non si ha soverchio riscontro) qui è il segno visivo che racconta e impagina: e dunque dispiace che la lettura musicale di Francesco Pasqualetti non sia apparsa troppo in sintonia con quanto si vedeva in palcoscenico. Se lo scenografo stilizza e intimizza, il direttore sembra più robusto e dimostrativo; se Yaque “oratorializza” Mosè, Pasqualetti lo “operistizza”. Ne derivano un ridimensionamento di quella severità concentrata che è la principale cifra stilistica del Mosè in Egitto, dei volumi talvolta un po' debordanti e un più spiccato primo piano della vicenda amorosa (che Rossini ha incastonato all'interno di una trama eminentemente corale).
Bisogna dire, però, che proprio dalla coppia dei due innamorati venivano le note più liete del cast. Il tenore Ruzil Gatin sfoggia un registro di testa limpido e penetrante, dove la risonanza non va mai a scapito né della levità né del legato e il cui colore chiarissimo giova a raffigurare, al contempo, l'estasi amorosa come certe ambiguità “politiche” del personaggio. Natalia Gavrilan, invece, affronta il suo ibrido ruolo tra soprano e mezzosoprano con un'ottima estensione che abbraccia entrambe le taglie vocali e un colore scuro – quello sì più spiccatamente mezzosopranile – latore di nobiltà timbrica e d'una sotterranea sensualità non disdicevole nella pudica figura di Elcìa.
Pure la coppia dei bassi contrapposti era valida. Il capo spirituale degli ebrei e il capo politico degli egiziani hanno trovato nel Mosè di Federico Sacchi e nel Faraone di Alessandro Abis due raffigurazioni autorevoli: nel primo trapela un certo affievolimento timbrico, compensato però dal fraseggio sempre eloquente e ispirato, mentre il secondo, con voce più giovane e robusta, tratteggia un personaggio scabro, violento, eppure mai epidermico. Un po' più esteriore la Faraona Amaltea – personaggio di mater misericordiosa cui Rossini attribuisce una vocalità estremamente frastagliata – nel veemente ritratto offerto da Silvia Dalla Benetta. Ben a fuoco, infine, i comprimari: Matteo Roma ha la giovanile empatia di Aronne, Marco Mustaro le mercuriali ambiguità di Mambre e perfino la piccola parte di Amenofi non passa inosservata nel forbito appiombo musicale di Ilaria Ribezzi.
Paolo Patrizi
14/11/2018
Le foto del servizio sono di Imaginarium Creative Studio.
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