Elias o del sincretismo estetico e religioso
Era forse inevitabile che un musicista come Mendelssohn, di famiglia ebrea convertita al culto cristiano riformato da una generazione, scegliesse come primo approdo al genere dell'oratorio un titolo come Paulus. Il transito da Saulo a Paolo rappresentò per lui – a ben vedere – un puro retaggio familiare: ma è nel destino degli artisti trovare spunti problematici anche nelle situazioni di fatto e dieci anni dopo, con Elias, le cose si complicheranno. Certo, Passioni di Bach e Oratori di Händel (come dire protestantesimo e germanicità) restavano le stelle polari d'ogni compositore alle prese con il genere sacro; eppure, nel caso di Mendelssohn, si trattava di radici culturali non scontate: la natura apolide che è nel codice genetico di ogni ebreo difficilmente si cancella al lavacro battesimale. Tra fede luterana e memorie giudaiche, antica tradizione sinfonico-corale tedesca e nuove istanze romantico-europee, di sollecitazioni discordanti ce n'erano molte e i due lustri necessari all'elaborazione dell'Elias (1836-46) servirono appunto a farle convergere. O, almeno, a creare un edificio drammatico-musicale di straordinaria plasticità, che recupera le forme classiche rinnovandole nel substrato sinfonico.
Il più classico dei romantici, come si è soliti definire Mendelssohn, cerca insomma di conciliare due linguaggi e, intenzionalmente o meno, anche due fedi. Per un direttore che affronti quell'opus magnum che è Elias questo doppio sincretismo diventa la cosa più ardua da trasmettere: Daniele Gatti, all'Accademia di Santa Cecilia, ci è riuscito almeno in parte. Laddove – chiariamolo subito – questo “in parte” non è dovuto a limiti parziali della sua interpretazione (reduce dall'integrale delle sinfonie mendelssohniane con l'Orchestra della Rai, la sua empatia con il compositore è oggi pressoché assoluta), ma all'aver fatto una netta scelta di campo. Indugiante nei tempi, rarefatto nelle sonorità, umbratile nella timbrica, l'Elias di Gatti pone l'accento sulla severa compostezza del profeta più che sul suo furore verso l'idolatria, sulla dimensione raccolta e pensosa piuttosto che sui “quadri della natura” con la furia degli elementi e i prodigi del fuoco o della pioggia: una lettura dove ciò che emerge di pienamente ottocentesco è, ben più del retroterra romantico, proprio questa religiosità austera, ignara della “leggerezza” con cui l'uomo del diciottesimo secolo si rapportava ai misteri della fede (e che, infatti, traspare vivamente negli oratori haendeliani).
Mendelssohn dunque sarà pure un inquieto Giano bifronte, ma per Gatti concetto poetico e forma musicale appaiono qui cristallizzati e inequivocabili (certe subitanee accelerazioni che imprime agli squarci più angosciosi non infirmano il passo lento e la cornice grave dell'insieme, anzi li corroborano); e, nel dramma sacro scevro da tentazioni spettacolari plasmato dalla sua bacchetta, resta poco spazio per quella “teatralizzazione” della parte canora che, tuttavia, è caratteristica saliente del Mendelssohn sinfonico-vocale. Peccato, perché almeno due dei quattro solisti sarebbero notevoli vocal actors. Il protagonista Jordan Shanahan ha, del profeta biblico, quel physique du rôle che per un cantante lirico è il timbro: robusto fino alla rocciosità e compatto fino alla monoliticità, inequivocabilmente baritonale benché la scrittura mendelssohniana propenda per un basso-baritono (e, forse, più alla prima delle due polarità), ma, appunto per questo, capace di evocare quella scabrosità meno raggiungibile dalla più rotonda emissione d'un autentico basso. Il soprano Marlis Petersen, all'inizio, presta invece il suo “vibrato” espressivo e il suo colore chiaro eppure ricco di contrasti a una perfetta raffigurazione della vedova colpevole d'idolatria, sì, ma pia nell'intimo; mentre nella seconda parte dell'oratorio è la pura vocalista a predominare, sciorinando fiati e “legato” da manuale nella lucente aria scritta da Mendelssohn per Jenny Lind, icona del belcanto negli anni Quaranta dell'Ottocento.
Il tenore Bernard Richter sembra patire l'alta tessitura della prima aria di Obadjah, risolta in suoni un po' schiacciati, prendendo quota nel prosieguo. Michèle Losier ha, del contralto, più le ombreggiature che la polpa: è un limite che si avverte nella seconda parte, quando deve incarnare la malvagia regina Jezabel, mentre altrove la salda musicalità della cantante franco-canadese s'impone con sicurezza. Le parti più piccole – due soprani, due contralti e una voce bianca – vengono affidate invece ad artiste del coro di Santa Cecilia (menzione particolare al contralto Margherita Tani); e purtroppo è stato proprio quest'ultimo, istruito da Piero Monti, l'anello relativamente più debole, con una serie di attacchi imprecisi alla prima delle tre recite, cui forse si è ovviato nelle repliche successive. Ne scapita l'elemento che teoricamente dovrebbe essere il vero protagonista dell'Elias, ma, d'altronde, Gatti fa convergere tale protagonismo sulla parte strumentale. Sillabazione, declamazione, espansione melodica, tutto viene restituito in primo luogo dall'orchestra: un trattamento “vocale” dell'orchestra stessa e “strumentale” del canto, che, in fondo, è a sua volta un modo di fare i conti con il doppio sincretismo di cui si parlava all'inizio, e rapportarci con l'anima divisa in due di Mendelssohn.
Paolo Patrizi
1/3/2023
La foto del servizio è di Musacchio, Ianniello e Pasqualini.
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