RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Roberto Devereux

al Teatro Massimo di Palermo

Se la tetralogia dal titolo L'anello del Nibelungo nasce da un progetto di Richard Wagner realizzato poi come ciclo drammatico nel corso di un quarto di secolo tra il 1848 ed il 1874 attraverso quattro drammi musicali ( L'oro del Reno, Valchiria, Sigfrido e Il crepuscolo degli dei), mentre per l'italiano Gaetano Donizetti potremo invece parlare di una tetralogia ante litteram, rispetto a quella del collega tedesco, in quanto il compositore bergamasco dedicò alla casa Tudor e in particolare a Elisabetta I d'Inghilterra quattro opere del suo vasto catalogo: Anna Bolena, Elisabetta al castello di Kenilworth, Maria Stuarda e Roberto Devereux. Risulta evidente che i quattro melodrammi donizettiani sono indipendenti l'uno dall'altro e non fanno parte di un unico intento o progetto, ma possono ascriversi solo al peculiare e sentito interesse che nutrì l'autore per la figura della grande sovrana albionica.

Dal 20 al 27 marzo 2022 al Teatro Massimo di Palermo Roberto Devereux, l'opera in tre atti del compositore bergamasco su libretto di Salvatore Cammarano (il melodramma venne rappresentato per la prima volta a Napoli il 28 ottobre 1837) è stato presentato al pubblico siciliano nel seducente allestimento approntato della Welsh National Opera e per quanto riguarda ii costumi in collaborazione con il Teatro Real di Madrid e la Fondazione Teatro Massimo. Tale allestimento che si è mostrato quanto mai inquietante, perturbante e saturo di ambientazioni degne dei più laceranti, spaventosi e angoscianti incubi notturni degni di un romanzo gotico, di un racconto di Edgar Allan Poe, di Howard Philipp Lovecraft o di un quadro di Johann Heinrich Füssli, si è riversato sul folto pubblico presente conquistandone e captandone subito l'interesse e l'attenzione, provocando anche vibrazioni di alta tensione ed eccitata apprensione.

Scene e costumi di Madeleine Boyd si sono rivelati quanto mai pertinenti e funzionali al dramma e in special modo una gigantesca e impressionante silhouette della sovrana prima e poi il suo incedere per il palcoscenico sopra un grande ragno meccanico (simbolo archetipico psicoanalitico di un femminile prevaricante e tirannico?) i cui cheliceri vengono sostenuti dai suoi cortigiani (simbologia del servilismo e della sottomissione ipocrita e vile al potere assoluto?). La scaltra regia di Alessandro Talevi riusciva a creare una perfetta armonia fra il golfo mistico, il canto, l'azione scenica e l'azione mimica (curata da Anna Maria Abruzzese) che non solo si potenziavano fra loro ma riuscivano anche a rendere il fluire del dramma e il suo procedere verso l'estrema catastrofe finale in modo sempre più coinvolgente, trascinante e appassionante. Le luci di Matt Haskin e Teresa Nagel hanno contribuito non poco a sottolineare l'atmosfera notturna e a volte spettrale dell'intero dramma in musica.

Il soprano Yolanda Auyanet (Elisabetta I) dopo un primo atto alquanto incerto e poco incisivo in cui non mancava qualche piccola asperità negli acuti, si è man mano sciolta esibendo una vocalità potente e un fraseggio accurato e abbastanza agile, che si è manifestato in tutta la sua drammatica veemenza nella splendida aria finale: “Quel sangue versato al cielo s'innalza”. Il mezzosoprano Vasilisa Berhanskaya (Sara) ha messo in campo una struggente interpretazione dalla quale emergeva una timbratura fonica molto significativa e una perfetta omogeneità fra le varie zone (bassa, media e acuta) della sua rifinita e cesellata voce. Il tenore John Osborne (Roberto Devereux) ha confermato le sue raffinate e stilizzate doti tecniche, tipiche della scuola statunitense, esibendo anche un uso rifinito e perfetto delle mezze voci. Nell'aria finale: “A te dirò, negli ultimi singhiozzi” è stato poi di una bravura magistrale, mettendo a segno un do di petto preciso e dallo squillo terso e luminoso. Il baritono Davide Luciano (Nottingham) è riuscito a rendere appieno il carattere focoso e vendicativo del duca, ottima la sua messa di voce e molto penetrante e colmo di pathos il suo timbro bronzeo e autorevole. Si sono distinti anche Carmine Riccio (Lord Cecil) e Ugo Guagliardo (Gualtiero) per buon fraseggio e corretta intonazione.

L'orchestra del Teatro Massimo di Palermo è stata guidata da Roberto Abbado con estremo equilibrio e stacco dei tempi puntuale e corretto, evitando prolissità ed esagerazioni sia nei tempi più ritenuti sia in quelli più scattanti e vivaci. Magnifica e pregnante l'esecuzione della potente sinfonia d'apertura che prepara emotivamente il dramma (essa fu aggiunta l'anno dopo del debutto napoletano in un'edizione parigina) che contiene il tema dell'inno inglese “God Save the Queen” mentre il secondo tema adotterà il motivo della cabaletta del tenore. Anche il colore orchestrale ridefinito e ricamato in senso romantico-tragico e non sicuramente romantico-sentimentale, ha evitato di scadere nelle svenevoli effusioni liriche traboccanti talora nel mellifluo e nel dolciastro. Il bravo conduttore ha anche raggiunto un denso amalgama sonoro fra le varie famiglie degli strumenti musicali e nel contempo ha evitato sempre e accuratamente di sovrastare le voci realizzando invece come un tappeto sonoro sul quale esse hanno potuto sempre adagiarsi. Alquanto delicata, morbida e flessibile nei confronti dell'universo emotivo dell'opera si è rivelata anche la compagine corale curata e preparata da Ciro Visco.

Giovanni Pasqualino

1/4/2022

Le foto del servizio sono di Rosellina Garbo.