A Piacenza è di scena Anna Bolena
Altro che San Valentino! Scala, 14 febbraio 1982: l'Anna Bolena viscontiana, che grazie alla Callas era rinata, fenice non araba ma nostrana, nel 1957, veniva ripresa da una ormai declinante Montserrat Caballé: la quale, rinfocolando l'acredine dei melomani che la chiamavano Forfaié, accusò un'indisposizione e non si presentò in scena. Giuseppe Patanè non riuscì nemmeno a iniziare la recita: annullata a furor di popolo! Eppure, appena quattro mesi prima, a New York, sotto Zubin Mehta, aveva cantato la scena finale dell'opera in concerto, assieme ad altre arie: sia come sia, dopo la fischiatissima recita del 21, le subentrò la giovane Cecilia Gasdia e fu l'inizio della sua carriera.
Ma se in Italia il titolo venne riscoperto nel '57 (Bergamo, città natale di Donizetti, ci aveva in realtà pensato l'anno prima), fu Barcellona – nel 1933 culla alla stessa Caballé – ad avviare la Bolena renaissance, quando il Liceu, nel '47, decise di optare per questo stesso titolo con cui era stato inaugurato cent'anni prima. Non che da allora, la Bolena spopoli nei cartelloni internazionali; ma almeno ha ricominciato timidamente a punteggiarli, dopo essere scomparsa, in Italia, dal 1877 (Scala, sotto Franco Faccio), e, nel mondo, dal 1890 (Los Angeles).
E dire che, quando fu composta, riscosse un grande successo, tenendo conto che fu presentata al Carcano di Milano, piazza minore rivale della Scala, per la quale Donizetti, dopo gli esiti tiepidi se non disastrosi di Chiara e Serafina del 1822, aveva giurato di non scrivere più una nota. Tanto più che la stessa sera del 26 dicembre 1830, quando andò in scena per la prima volta, aprendo la stagione di Carnevale e Quaresima, se la vedeva con I Capuleti e i Montecchi di Bellini, firmati dallo stesso librettista della Bolena, Felice Romani (uno scontro ad armi pari, insomma: «Egli musichi, io musicherò. Il pubblico giudicherà»: sembra già di leggere della disfida bohémien tra Puccini e Leoncavallo: in quel caso, ad essere in comune, era il soggetto), che non colsero sul palcoscenico scaligero propriamente i fasti della gloria, forse perché battezzati alla Fenice pochi mesi prima (Bellini si rifece comunque a marzo del '31, proprio al Carcano, con La sonnambula). Ironia della sorte, il bel dipinto di Karl Brjullov che immortala Giuditta Pasta nelle vesti di Anna, di cui fu la prima interprete, e presso la cui villa a Blevio, sul lago di Como, Donizetti scrisse buona parte dell'opera, beneficiando dei suoi consigli, è finito al Museo della Scala…
Dopo un folgorante inizio di stagione con l'Otello verdiano, a Piacenza va in scena proprio l'Anna Bolena (edizione critica a cura di Paolo Fabbri) in una versione di rara integralità di quasi quattro ore: «qualche taglio si impone ma ho deciso di essere molto parco», dichiara Diego Fasolis nel programma di sala. Eseguita nella sua interezza, la Bolena rivaleggia con la Semiramide rossiniana, di cui può essere considerata, nella sua «compostezza tragica» (Zoppelli), l'equivalente donizettiano. Si tratta di una coproduzione che coinvolge il LAC Lugano Arte e Cultura, il Teatro Municipale di Reggio Emilia e il Comunale di Modena, oltre al Municipale di Piacenza, seconda tappa italiana – dopo il debutto ticinese e le repliche reggiane, e prima di quelle modenesi –, dove si colgono le impressioni infra riportate alla prima delle due recite in programma, venerdì 16 febbraio 2024.
Il côté musicale è affidato al maestro Diego Fasolis, che guida I Classicisti, ex I Barocchisti, in un'esecuzione filologica, o, come si dice, “storicamente informata”, utilizzando strumenti originali, con diapason a 430 Hz: operazione non così inconsueta, pensando ad altri ensemble – Akamus, Le Concert des Nations, etc. –, che però si concentrano maggiormente su repertori antecedenti: in ambito donizettiano si allineano in tal senso Gli Originali con le recenti esecuzioni di Chiara e Serafina (2022) e Lucie de Lammermoor (2023) al Donizetti Opera Festival di Bergamo, recensite dallo scrivente. L'operazione ha un suo perché, dal momento che restituisce una sonorità più vicina a quella realmente udita e concepita da Donizetti, con ottoni più “secchi”, impossibilitati a muoversi su scale cromatiche (peraltro gli unici ove si colgono ripetute défaillance esecutive, corni e trombe), e legni più “morbidi”, con flauti e clarinetti più pastosi rispetto a quelli moderni; si colloca tuttavia al limite del dato temporale oltre il quale l'utilizzo di strumenti originali, con l'avvento delle moderne tecniche di costruzione, perde di significato. Il pregio più evidente della compagine è lo scatto, l'agilità e la facilità di articolazione, e in questo il connubio col taglio direttoriale fermo, accattivante, asciutto e conciso di Fasolis è vincente: fin dalla Sinfonia propone un piglio drammatico, interessanti rilievi strumentali e cura delle dinamiche, sottolineata dalle pause (il valore del silenzio…) e da incisi netti delle percussioni: ne esce un suono levigato e terso, che, se per buona parte dell'opera concerta bene col palcoscenico, secondando i cantanti, talvolta tende a soverchiarlo, coprendo i solisti (il duetto Seymour/Enrico del primo atto ne è un esempio). Due voci mature si confrontano con due voci giovani, e i risvolti di questo confronto si apprezzano nella caratterizzazione dei personaggi, soddisfacente sul piano psicologico, di meno su quello vocale. Il title role è sostenuto da Carmela Remigio, che dipinge una regina remissiva, arrendevole, che già sa di essere sconfitta, in questo adeguando l'interpretazione ai suoi mezzi vocali, non (più) smaglianti ma ancora dotati di rotondità e morbidezza, di un timbro suadente, vagamente fumé: caratteristiche che non le impediscono di sfoderare brevi ma apprezzabili, anche se un po' sofferte, impennate in acuto al termine di entrambi gli atti. Smorzati i furori di un protagonismo di facciata, sonda le pieghe della dimensione intima, e dove non arriva l'opacità della voce, arriva una recitazione altamente espressiva del viso e del corpo, a tratti fin troppo “teatrale”. Simile lo stile interpretativo di Simone Alberghini quale Enrico VIII, che tratteggia un re solo in apparenza sicuro di sé, invero introiettato e solipsistico, fragile, declinante, come purtroppo anche il suo strumento, vibrante sì, ma con poca proiezione e poco volume, appropriato nel registro centrale, nei recitativi come nelle espansioni cantabili, ma di poca sostanza negli acuti e nei gravi. Non ci vuol molto all'orchestra, in Tutta in voi la luce mia, ad esempio, per sovrastarlo. E se pur aiutato dall'entrata in scena su un cavallo a grandezza naturale, cosa che gli dona l'impatto visivo di una statua equestre, non riesce a imporsi a dovere come animatore dello scandalo nel Finale primo.
A diradare le ombre delle voci mature, ci pensano le luci di quelle giovani. Arianna Vendittelli è una Giovanna Seymour rampante, vivida e battagliera, ancorché credibilmente contrita al momento della confessione, che si avvale di voce fresca, sonora, smagliante, di squillo adamantino e ben proiettata, i cui acuti svettano sicuri sia su arditi scrimoli solistici, sia nei duetti e negli assiemi. (Nota filologica, un po' come per Norma, si ha qui l'opportunità di ascoltare una Bolena con due soprani, anziché con l'antagonista ribassata a mezzosoprano, consuetudine nata nella seconda metà dell'Ottocento e presente in numerose incisioni attuali). Simili lodi valgano per il Riccardo Percy di Ruzil Gatin, alla cui facilità di estensione in acuto, priva di sforzo apparente, a un canto aereo, a un timbro belcantistico squillante e lirico (vogliamo preconizzare un futuro Flórez?), sfoggiato meravigliosamente in Vivi tu, te ne scongiuro e che al termine di Nel veder la tua costanza gli frutta convinti e prolungati applausi, si deve aggiungere, lui russo madrelingua, una perfetta dizione italiana.
Bene anche per lo Smeton di Paola Gardina, voce morbida, leggiadra e graziosa, dal fraseggio elegantemente cesellato, non esente da infioriture sua sponte inserite in Deh! Non voler costringere, quanto del pari decisa e penetrante all'occorrenza. Si attestano infine quali validi comprimari Luigi De Donato, che canta da Rochefort quando avrebbe tutte le carte in regola per cingere il regal serto … quello di Enrico VIII… e il corretto Marcello Nardis quale Hervey.
Il Coro Claudio Merulo di Reggio Emilia, istruito da Martino Faggiani, ha modo di mettersi in luce in pochi ma ben eseguiti interventi, soprattutto in Oh! dove mai ne andarono, d'impronta mozartiana.
La regia è firmata da Carmelo Rifici, con Lorenzo Ponte assistente. Scopo del lavoro è qui non tanto una restituzione pedissequa delle indicazioni librettistiche, ma, in accordo con la caratterizzazione ombragé di Anna, rappresentare l'isolamento e l'introspezione dei personaggi, e scandagliare gli spazi labirintici della coscienza. Ciò si invera con le scene di Guido Buganza, che si imperniano su un grande girevole leggermente arretrato sul palcoscenico, di un grigio scuro che può ricordare tanto il cemento quanto il metallo – in ogni caso materiali freddi –, cui fanno ala due quinte mobili dello stesso colore. La struttura, tutta porte, aperture e corridoi (durante la Sinfonia due decoratori in salopette bianca vi dipingono sopra un volto di donna, su scale di adeguata altezza), delimita gli spazi e si presta, con un po' di immaginazione, a diventare tutti gli ambienti dell'opera.
Resta l'idea di un ambiente arido, incombente, che ha qualcosa del brutalismo sovietico, al cui vago senso di inquietudine contribuisce l'illuminotecnica di Alessandro Verazzi. Del cavallo (finto) di Enrico VIII si è già detto; si aggiunga il simpatico cagnolone nero (e vero) al guinzaglio di Angelo Picoco – Dog Academy Italia, per un tocco di realismo nella battuta di caccia di Enrico VIII. La mobilità della scena è però contrastata dal frequente ricorso al tableau vivant, con il coro immobilizzato tutto a destra o tutto a sinistra, solisti e comparse in pose plastiche. L'ambito coreutico, a cura di Alessio Maria Romano, comprende quelle che potrebbero dirsi proiezioni mentali o retroscena, nella zona meno visibile del girevole: due aguzzini in bianco con punteruoli insanguinati in mano, che caveranno gli occhi a Smeton (particolare fortunatamente solo lasciato immaginare), una grande croce di legno con un Cristo accovacciato, il boia che sciabola con lo spadone, anticipando quella decapitazione cui Anna si avvierà inginocchiandosi di fronte al ceppo fatale. (Si sarebbe evitato il ridanciano giullare ballerino quando fuori scena si acclama la nuova regina).
Margherita Baldoni veste infine i personaggi in modo volutamente non inquadrabile in un'epoca storica, in questo allineandosi all'astrattismo dell'allestimento: dal rosso dell'abito di Seymour, a quello verde di Anna, mutato in bianco per la scena finale, al nero di Enrico VIII, dal coro con alte cinture e fibbie vistose a Smeton in bianco, fino ai più sobri velluti autunnali di Percy, la costumistica rimane neutrale, ma si armonizza, nel colpo d'occhio, coi colori delle scene e delle luci.
Al termine della recita, il pubblico decreta il successo della serata con applausi a tutto il cast, pur senza le punte di acceso entusiasmo dell'Otello inaugurale.
Christian Speranza
19/2/2024
Le foto del servizio sono di Masiar Pasquali.
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