Alla conquista di altri spazi musicali
Vero è, forse, che, alla lunga, umani e artisti finiscono per parlare delle cose che conoscono meglio, ignominie che sanno a memoria non perché ne siano stati i diretti responsabili ma per colpa di loro “conoscenti” – ci viene in mente l'ironia militante e cocente del manifesto di Majakovskij, uno dei tanti, che lo ritraeva ritto in piedi, il dito puntato all'osservatore, che tuonava: Cittadino, questo non è per te ma per un tuo conoscente!
Quali cose? Per esempio l'istinto becero e primordiale alla colonizzazione cioè allo stupro di corpi, menti, anime, culture in nome di una “civilizzazione” che altro non è che (dis)velato complesso d'inferiorità, patologica e “politica” insofferenza al diverso. Die Eroberung von Mexico (La conquista del Messico), l'opera di Wolfgang Rihm (classe 1952) autore anche del libretto, di stanza al Festival di Salisburgo, è l'espansione appassionatamente naturale e pericolosamente intellettuale di questa idea.
Il Messico è qui, parafrasando indegnamente il Sommo Poeta, luogo “dello schermo” giacché non di dramma storico si tratta, tuttavia la conquista del Messico resta, per definizione e per memoria collettiva, “automatico” paradigma di sopraffazione, usurpazione, (in)cosciente annullamento spirituale e materiale di intere etnìe. Sceglie Octavio Paz (Raìz del hombre, poesie d'amore del prezioso, blasonato poeta e diplomatico messicano), Rihm, nei liberi inserti del suo tessuto drammaturgico ma pensando al torvo Cortez – che con Montezuma è protagonista di Die Eroberung – e a tutti i suoi “conoscenti”, sentiamo più congeniale un grande del Sudamerica che dalla cosiddetta terra madre non subì certo trattamento migliore. È il cileno Pablo Neruda che in Confesso che ho vissuto, autobiografia quantomeno singolare, all'indirizzo degli ispanofoni di Castiglia e in difesa della lingua di questi che è anche la sua, dice, lapidario: Se lo llevaron todo y nos dejaron todo, nos dejaron la palabra. Ci hanno lasciato, sì, la parola – oro inestimabile, la lingua spagnola – ma ci hanno pur sempre portato via tutto.
Die Eroberung von Mexico di Rihm è una sorta di allegoria politica incarnata da una donna e un uomo – Angela Denoke, soprano, nel ruolo di Montezuma, Bo Skovhus, baritono, nei panni di Cortez – che diventano anche espressione prevedibile ma non per questo meno suggestiva di due princìpi assolutamente incompatibili e drammaticamente refrattari al dialogo. Perciò ciascuno di loro è “rafforzato” da due presenze, rispettivamente voci recitanti per lui-Cortez, soprano e contralto per lei-Montezuma. Il palco (scene di Johannes Leiacker su regìa di Peter Konwitschny) è un piano rialzato e ritagliato su un cimitero di macchine alla Arrabal. Su copertoni e carcasse, infatti, cammina “l'innamorato” Cortez fino a presentarsi, mazzo di rose in mano, al suo oggetto d'amore e di fosco corteggiamento, Montezuma.
Di lì a poco, sarà una catena di gesti simbolici: Cortez farà rozzamente cadere i “libri” di Montezuma, guarderanno insieme “album di foto”, poi si guarderanno e basta, lei affascinata da lui che per tutta risposta non esiterà a tentare un approccio andato a male seguito da un altro, decisivo, violento, ai limiti dello stupro. Niente di più storicamente e cosmicamente decifrabile. Quando Montezuma lo caccia, le parole di Cortez, in preda a convulsioni, sono: “La guerra che io voglio pagare viene dalla guerra che è stata pagata contro di me!”. Tanto più il dialogo tra Uomo-Cortez e Donna-Montezuma è ontologicamente impossibile, tanto più lui si riproduce nelle forme e nei ruoli più diversi fino a divenire marito di lei, incinta, che darà alla luce computer, tablet ed ogni sorta di neonato tecnologico . I suoi vagiti sono icone, email, file, agende, mappe.
Non mancano altri segni intellegibili lungo il percorso: promesse da manuale del colonizzatore, “Noi siamo i vostri benefattori! ” , scampoli di pacifiche guerre di religione, “Questo non è Dio. Al posto dei vostri idoli, noi metteremo la nostra illustre e santa donna, la madre di Gesù Cristo ”. Eppoi masse urlanti di yuppie compiacenti e senza scrupoli, avvenenti escort piazzate su una spider rossa (di Cortez, si capisce) e la “misteriosa”, irrimediabile scomparsa di Montezuma. Al suo posto, Cortez, ormai recluso tra pareti bianchissime vagamente post-nucleari, ritrova seduta accanto a sé una sposa gonfiabile su cui piange come si fa su un' “armatura d'ossa”.
La parabola è chiara, o almeno così ci sembra, il particolare non fa fatica ad annullarsi nell'universale. Universale è anche quel triumvirato, Neutre Féminin Masculin che dell'opera di Rihm diventa martellante giaculatoria ed è dichiaratamente presa a prestito da un testo di Antonin Artaud, saggio non poco enigmatico dal titolo Le théâtre de Séraphin, che il geniale, controverso sacerdote del Teatro e il suo doppio e del Teatro della crudeltà licenziava a metà degli Anni Trenta e giustappunto dopo un anno trascorso in Messico. Legittimo. Il punto è che, con buona pace di augusti richiami (Paz, appunto) e intriganti riferimenti (Artaud), il libretto ha una scrittura esile che, d'altro canto, trabocca di liriche, retoriche ovvietà (“La guerra sputa guerra”, “Il sogno s'è mangiato il sogno”) ma la drammaturgia non regge la ribalta. Se non comandamenti, la scrittura teatrale ha leggi che vanno conosciute e possibilmente osservate. Librettisti d'antan come Piave, Romani, Praga, Maffei (per non parlare degli ottimi Illica, Giacosa, Cammarano o di un genio assoluto come Da Ponte) che ai poeti “veri” d'allora facevano storcere il naso per quel loro versificare ingenuo, non smarrivano mai il senso del téatron ché di teatro scritto conoscevano il “mestiere”. Unicuique suum.
E lo diciamo non a caso perché il suum di Rihm è partitura di rara ricchezza e bellezza. L'universo sonoro di Wofgang Rihm è liricamente enciclopedico, è proteiforme, generoso in orchestrazione e strumentazione, in idee melodiche e in trovate atonali, nell'impiego di voci-strumenti e strumenti-voci, nell'uso d'effetti sonori legati alla tecnologia ma anche in rimandi musicali ad etnìe precolombiane. E' un mondo di mondi.
Eroberung
– nota il maestro Ingo Metzmacher la cui direzione e concertazione qui è come sempre irrinunciabile e onnipresente – diventa “conquista” di altri spazi musicali.
Dimenticate un'orchestra che sta “solo” in buca.
Se la scrittura musicale resta la prima ed ultima “parola”, eloquente e poetica, autonoma e autoctona, dell'opera di Rihm, spettacolo nello spettacolo, anzi, spettacolo unico è la disposizione e distribuzione dei suoni.
In platea, tre podi e su ciascuno di esso un percussionista a crotali e bongo che, già prima che la pièce abbia inizio, suggeriscono ritmi e melodie di tempi remoti per lanciarsi in un crescendo che li vede affratellarsi ai percussionisti e timpanisti in “buca”. Per gli archi, c'è ancora un altro spazio. Siedono in angoli opposti della “buca” mentre i primi violini sono collocati fuori, ai lati, su una linea immaginaria che dà seguito al golfo mistico. E adesso i fiati: tuba, contrabbasso, clarinetto basso e corno inglese a sinistra e a destra corni, tromboni, flauti, clarinetti. Oboi e trombe suonano da tutti e tre i podi quasi a voler circoscrivere e assicurare un agone sonoro. In “buca” non restano che poco meno di 50 professori d'orchestra, pianoforte ed arpa sono amplificati.
Come non vedere in questa ecumenica, pacifica “conquista” dello spazio un'idea musicale che, da sola, canta più di eserciti di poeti, racconta più storie della Storia e soprattutto è già raffinata, inarrivabile “trama” di drammaturgia sonante e parlante? Ha ragione Metzmacher quando, alla fine, agli applausi assordanti e assolutamente meritati da lui, primus inter pares, risponde levando in alto la partitura come uno scudo, come a dire: è tutto merito dell'autore.
Sissignore, è tutto merito della musica. E, rebus sic stantibus, che quella di Wolfgang Rihm continui a dire e dare il più a lungo possibile. Per i libretti ci saranno altre stagioni o, più semplicemente, altri autori.
Carmelita Celi
11/8/2015
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