Il vagabondo di Everett
L'importanza di essere Everett. E perciò di fare del suo Wilde non già il dandy a ph degli aforismi e della giacca a violoncello ma l'uomo sfinito e finito, da malattie contratte nei due anni di lavori forzati al carcere di Reading e dal male di vivere a pochi passi dal morire.
“Considero Wilde uno dei grandi vagabondi dell'altro secolo, insieme con Paul Verlaine. Di solito, i film su di lui hanno raccontato la sua vita fermandosi al processo, io invece voglio raccontare Wilde all'uscita di prigione, lacero e sdentato, in un angolo di strada, che beveva di tutto compresa la sua urina, mentre tutti lo evitano. Lui ch'era stato un dio tra salotti, accademie, teatri, diventa il Cristo del movimento omosessuale, un termine che fu inventato con lui ”.
E mentre lo dice è strepitosamente Sir nella postura e nel contenuto, e risulta curiosamente più eloquente, più colto, più intenso che nei suoi film. Un Rupert ideale, questo ragazzone di 56 anni, elegantissimo dovunque e comunque, al Taormina Filmfest per parlare anche del suo prossimo film in cui interpreterà l'autore di The picture of Dorian Gray affiancato però da cavalli vincenti della cinematografia degli ultini venticinque anni quali Colin Firth, Emily Watson, Tom Wilkinson.
“Wilde è sinonimo di fortuna per me, l'ho interpretato a teatro e a cinema, la sua vita è affascinante e io lo considero un santo. Il mio film sarà molto europeo perché, a differenza dei miei conterranei inglese, io mi sento molto europeo: è girato in Francia, Inghilterra e Italia e con attori ‘indigeni' che parleranno dunque le tre lingue in modo naturale e senza affettazione. Ci sono voluti otto anni per realizzarlo e, strada facendo, ho avuto non pochi problemi. I francesi sono molto nazionalisti e in Italia, con la Palomar, gli ultimi quattro anni sono stati difficili ma ho voluto girare la parte italiana del film a Napoli che per me è un personaggio a tutti gli effetti. Conosco bene la città e ho voluto mostrarla al mondo”.
Da Another country ad oggi, la scelta di non far mistero del suo orientamento sessuale è stata alla luce del sole ma non ha conosciuto poche ombre.
“Lo show business è molto conservatore in materia. Lo è Hollywood ma spesso la rigidità appartiene ai proprietari delle sale cinematografiche che, il più delle volte, sono tremendamente religiosi. Il film sulla Corea del Nord, per esempio, non furono gli studios a bandirlo ma i proprietari dei teatri. L'era Bush, poi, è stata una catastrofe e non ha certo incoraggiato gente come me. Comunque per una frocia vecchia è più facile, basta che mi mettano in mano una scopa e posso fare una strega…”.
Frocia vecchia. Lo dice proprio in italiano – e con irridente declinazione al femminile – ma la lingua di Dante Rupert Everett la conosce in modo sorprendente e inedito per la leggendaria pigrizia linguistica degli anglofoni.
Come mai?
“Ah, beh, l'ho imparato in Russia dove andai a girare un film: la troupe era italiana ed io ero troppo vecchio per imparare il russo…”.
L'altra grande scuola italiana si chiamava – si chiama – Giuliano Montaldo e Francesco Rosi in Cronaca di una morte annunciata. Altra scuola e altro che scuola.
“Era un autore a tutto tondo, Rosi, come forse non ne esistono più, oggi tutto è cambiato. Avrei toccato il cielo con un dito se avessi avuto l'opportunità di lavorare con Sergio Leone, Antonioni, Visconti. Quel film, però, fu un punto di svolta per me, osservare Gian Maria Volonté fu un privilegio senza pari. Ricordo benissimo il set in Colombia con Rosi, una personalità straordinaria, incuteva paura, era molto autoritario ma sapeva sempre ciò che voleva. E Irene Papas, Lucia Bosè, Ornella Muti. Mia madre voleva conoscerla, la Muti, e mi disse poi: perché non la sposi? Dal canto mio, ho sempre voluto proporre un remake dell'ultima parte del film quando ci incontriamo di nuovo ma invecchiati. Solo che per la Muti non è possibile perché nel frattempo lei è diventata più giovane!”.
Ed ecco che il dandy cede il passo al cavaliere, Sir Galahad come minimo (il ringiovanimento di Ornella Muti è ancora allo studio degli esperti).
Come fu che nella scena finale, ormai esilarante cult ,di Il matrimonio del mio migliore amico, lei finì con il dire “Jame Bond” ?
“In realtà, il regista, P.J. Hogan, che è mio amico e tutto sommato il regista con cui desidero lavorare ancora, mi disse d'inventarmi qualcosa. E a me venne in mente 007, un personaggio che avrei tanto voluto interpretare e peccato che la Sony non accettò la mia proposta di fare un James Bond gay. Quel rifiuto mi brucia ancora, avrei potuto farlo bene. E un sentimento così che ti resta dentro in eterno alla fine è una tragedia: rimandi di giorno in giorno e poi t'accorgi che è troppo tardi”.
Il futuro è in televisione?
“Chi può dirlo. Nessuno va più al cinema, oggi, e presto nessuno guarderà la televisione, già non c'è più chi si piazza davanti allo schermo per vedere il programma delle otto… Ma in verità nessuno sa dove va il futuro, è tutto molto incerto ma anche eccitante. Per me, però, sarà terribile rinunciare a vedere le cose insieme, e vedere un film in sala tiene la gente insieme. Il download ti isola”.
Ha già firmato quattro libri da autore, Everett: due romanzi negli Anni Novanta e due memoir. Nel 2006 c'è stato Red carpets and other banana skins, “Bucce di banana”, recita il titolo italiano, ma non restituisce la prima parte che è tuttaltro che trascurabile: si scivola eccome anche sui “tappeti rossi” dell'apparire e dello star system che, a sentire Richard Gere, non esisterebbe secondo la curiosa convinzione che il loro sia un lavoro come un altro. Di tre anni fa, invece, è Vanished years, anni svaniti.
E poi?
“Sto lavorando ad una sceneggiatura e ad un serial per la televisione, ho le mani in pasta, insomma”.
Meglio “cucinare” al cinema o a teatro?
“Recitare al cinema è uno stress particolare ma semplice, hai una sola chance e se sbagli non puoi rifarla. Recitare a teatro, invece, è come fingere un orgasmo falso ogni sera. È un'arte”.
Carmelita Celi
25/6/2015
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