RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Parigi

Snegurocka ritorna alla vita

La terza opera di Rimskij, La fanciulla di neve, ci ha messo quasi un secolo per ricomparire su una ribalta parigina: il1929 è stata l'ultima volta che la si vide all'Opéra. Certamente è lunga e per niente facile, ma non più di altri titoli – russi o no che siano – presentati con una frequenza maggiore. È probabile che una delle cause di ciò sia, come d'altronde capita spesso nel repertorio lirico di questo compositore, la debolezza teatrale soprattutto se messa a confronto della squisita fattura musicale. Soggetti cari all'autore non mancano in quella ch'egli stesso considerava la più perfetta delle sue opere liriche, e poi si può essere d'accordo o meno: la primavera, i riti pagani di una Russia preistorica, la fantasia, la natura, i racconti e canti popolari di cui Rimski era ghiotto e che raccoglieva con un rigore quasi da entomologo. La bellezza della musica si può solo lodare e ammirare, ma i personaggi sono alquanto generici, quasi simboli e comunque poco personali, o almeno non riescono ad interessare profundamente in quanto tali. Com'è appunto il caso della protagonista, figlia di Dama Primavera e Padre Gelo: si può sentire magari una tiepida simpatia ma non pietà, amore o affetto, ese si pensa a un'altra eroina “slava” e senza nome proprio, come la Rusalka di Dvorak, la differenza è immensa. E si badi bene che il libretto steso da Rimski in persona è basato fedelmente su un pezzo teatrale di un autore della categoria di Alexandre Ostrovski.

Nel nuovo allestimento di Dmitri Cerniakov la spuntava la parte migliore, piena d'intelligenza e sensibilità di questo regista, ma non sempre. Nella prima parte (i due primi atti) c'erano i suoi vezzi di maniera: quando si alza il sipario ci troviamo in una scuola di balletto e magari di canto e si capisce poco. Quando poi l'azione passa – come prima dello spettacolo – al villaggio rustico dalle belle casette, con dei costumi tradizionali (scene e costumi appartengono anche al regista) ci sono anche elementi moderni, non solo nei vestiti ma anche negli oggetti (veicoli come qualche vistoso camper) a farci capire che la favola è atemporale. Nella seconda parte invece (i due ultimi atti) questi scherzi tra l'ironico e il tenero spariscono e la poesia e la fantasia riprendono i loro giusti diritti e lo spettacolo si alza a un livello di pura meraviglia.

La direzione di Mikhail Tatarnikov era ottima e sotto la sua bacchetta l'orchestra splendeva senza mai coprire i cantanti. I cori, compreso quello di bambini, rinforzato dalla Maîtrise des Hauts-de-Seine, forse un po' riservati nei primi minuti, raggiungevano il loro formidabile livello in un altro lavoro memorabile dovuto anche a quel maestro straordinario che è José Luis Basso. I ruoli sono molti, se si considerano anche quelli falsamente comprimari. Protagonista ideale, applaudita con veemenza (magari un po' esagerata) era Aida Garifullina, molto comoda nella tessitura della parte e interprete di qualità. L'amante, alternativamente respinto e amato, Mizguir, era la prestazione meno riuscita della serata: Thomas Johannes Mayer ha un'emissione e proiezione difficili e un suono poco pulito anche se sul palcoscenico era credibile. Martina Serafin, la “rivale”, Kupava, finalmente in un ruolo che fa per lei, ripristinava i fasti di altri tempi o quasi, ma qua e là si sentono suoni rigidi e metallici in zona acuta sicuramente dovuti alle ultime azzardate scelte di repertorio. Franz Hawlata (il boiardo Bermiata) non riusciva a occultare in un ruolo tutto sommato piccolo e non difficile il suo attuale deficitario stato vocale. Invece il grande basso Vladimir Ognovenko (Gelo) mostrava solo un volume più ridotto rispetto ad altre sue mirabili interpretazioni, ma imponeva la sua grande categoria artistica. Negli altri ruoli principali c'erano sostituzioni inspiegabili e inspiegate. Il tenore Maxim Paster è un caratterista di buona scuola, voce piuttosto piccola e acuto limitato, il che forse non è di grande importanza per lo zar Berendei tranne che nel suo grande arioso. Elena Manistina assicurava finalmente tutte le recite nella parte di Primavera, abbastanza bene, ma con i noti suoni ingolati e intubati e un registro di petto un po' esagerato. La figura del giovane Lel, il poeta amato da tutte le ragazze del villaggio, è stata scritta per un mezzosoprano en travesti . Risulta più che discutibile affidarla a un controtenore, anche se oggi vanno di moda. Peggio ancora, annunziato inizialmente un mezzosoprano, si passava già da tempo a un controtenore che poi ha lasciato il posto al di per sè bravo Yuri Mynenko, anche bravo come attore e un fisico quasi ideale, ma la natura “per sé” di questo tipo di cantanti, più il timbro personale, facevano che la voce suonasse sempre bianca e metallica, e soprattutto nel grave mancava la sensualità che può dare quello dei mezzosoprani, se lo sono davvero. Vanno lodati ancora il tenore caratterista Vasily Gorshkov (Bakula, il padre adottivo della fanciulla) e il tenore Vasily Efimov, Spirito del Bosco molto irrequieto e un punto minaccioso. Interessante la vocalita dei due araldi (Vincent Morell tenore, e Pierpaolo Palloni, baritono dal timbro molto scuro). Il pubblico, parecchio numeroso, applaudiva molto tutti quanti.

Jorge Binaghi

26/4/2017

Le foto del servizio sono di Elisa Haberer.