Le illusioni che aiutano a vivere
Le illusioni che aiutano a vivere
Nell'ormai lontano 1967, quando le pari opportunità, le quote rosa, le verbose e stantie polemiche sulle mercificazione del corpo femminile erano ancora nel grembo di Giove, alla donna che ancora arrancava per trovare una sua collocazione nel sociale, se non aveva la fortuna di nascere in una famiglia benestante e soprattutto di idee aperte, rimanevano più o meno due o tre vie per riuscire a campare: innanzitutto sposarsi, possibilmente con qualcuno che potesse assicurarle il necessario e magari anche qualcosina di superfluo, poi andare a servizio o finire in fabbrica, e in ultima analisi praticare il mestiere più vecchio del mondo, in maniera più o meno esplicita, e con guadagni direttamente proporzionali alla qualità della mercanzia che aveva da offrire.
Si chiamasse mantenuta o più crudamente prostituta (ma era solo una questione formale), questo tipo di donna raramente faceva tale mestiere per piacere o per inclinazione naturale: più realisticamente, era un'occasione che le capitava lungo il cammino della vita, e alla quale si adeguava in mancanza di meglio, non di rado non ammettendo nemmeno con se stessa di sfruttare il proprio corpo per denaro, anzi tentando disperatamente di mascherare tale situazione con ambigui e sottili marchingegni psicologici atti a nasconderle giorno dopo giorno la reale miseria della sua condizione.
Su tale tipo femminile Aldo Nicolaj ha costruito una commedia amara e brillante, Farfalla… farfalla, che ha debuttato al Teatro Brancati di Catania il 4 febbraio, scritta appunto nel 1967 per la grande attrice Paola Borboni, all'epoca abbastanza anziana e matura artisticamente per poter delineare la complessità nevrotica del personaggio, commedia che è in breve divenuta un classico delle scene e cavallo di battaglia di molte attrici.
Edda è una curatissima signora abbastanza avanti negli anni, con una bella casa, intenta a carezzare giorno dopo giorno le sue preziose ali di farfalla (leggi un'avvenenza ormai disfatta), e a cianciare da mattina a sera di una vita trascorsa tra amanti bellissimi e soprattutto ricchissimi, tra i quali a suo dire avrebbe svolazzato allegramente senza mai legarsi in maniera stabile a nessuno. Magnifica i suoi gioielli, le sue presunte ricchezze, si tiene alle pareti un enorme quadro che dovrebbe ritrarla all'apice della bellezza, e passa così le sue giornate, ingurgitando medicine, tiranneggiando la serva, ma principalmente aspettando con ansia che qualche individuo di sesso maschile bussi alla porta per farla sentire ancora viva, bella e affascinante. E un uomo una notte busserà alla sua porta. Fagocitato all'interno del meccanismo nevrotico, verrà assunto per ascoltare tutta la notte le chiacchiere di Edda, finché una bella mattina sarà lui a parlare, trascinando Edda dinanzi alla realtà: non ha mai avuto amanti ricchi, ha fatto quel che ha fatto per sfuggire alla miseria, i suoi gioielli sono falsi, ma soprattutto lui, Elio, è il figlio avuto con un miserabile falegname, abbandonato in un brefotrofio all'indomani della nascita, e che ora è giunto da lei solo per conoscerla, vederla in faccia, e poi tornare a sparire.
A questo punto, Edda esce per poco dal personaggio che lei stessa si è costruito, e ammette che solo la miseria vissuta sin da piccola l'ha spinta a rifugiarsi in un mondo fasullo, un mondo nel quale, freudianamente, tutti i ricordi brutti sono stati rimossi, rielaborati o ricostruiti in maniera rassicurante e gratificante, in una mutazione di prospettiva mantenuta in vita anche da una serie di finzioni accessorie, all'interno delle quali anche la serva ha una funzione cardine. Ne viene fuori una donna scissa, ansiosa di tornare a rintanarsi nel suo mondo immaginario, una donna che Alessandra Cacialli ha scolpito in ogni sfaccettatura, affidando alla sua mimica perfetta ogni cambio d'espressione, ogni passaggio psichico, trovando volta a volta accenti scanzonati, ilari, disperati, qua e là perfidi, ma sempre con un controllo perfetto delle due fondamentali dimensioni di Edda, quella reale, nascosta, e quella fasulla, ostentata con disinvoltura sempre misurata, evitando ogni caduto nel grottesco o nel caricato.
La regia di Romano Bernardi, coadiuvata dalle scene di Susanna Messina, naturalistiche ma ben calibrate sui particolari essenziali, ha impresso il giusto ritmo alla recitazione, scansando le secche di un'eccessiva comicità tesa a compiacere il pubblico, e mantenendosi equidistante sia dal tragico che dal grottesco, scegliendo anzi un tono medio, ben adatto ad accompagnare il climax di consapevolezza di Edda, il momento culminante della disperazione e della realtà, che subito torna a scemare per poi creare la sorpresa finale, affidata alla serva, che Debora Bernardi ha interpretato ben conscia del suo ruolo di spalla della prima attrice per tutta la commedia, adottando una recitazione in apparenza dimessa, latentemente aggressiva, che ha trovato il punto culminante a poche battute dalla fine, in un mutare di panni e pettinatura sulla scena, a cui ha corrisposto un fulmineo cambiamento di mimesis e movenze, quasi che da una crisalide fosse emersa una maligna farfalla pienamente cosciente di sé e del suo potere assoluto su Edda.
Buona la prova fornita da Francesco Maria Attardi nel ruolo di Elio: attore ancora giovane ma promettente, si è distinto per una gestualità calma e composta, mai sopra le righe, per dizione chiara e immune da sgradevoli accenti e per una varietà timbrica che gli ha permesso di non sfigurare nella scena centrale con la Cacialli, dove anche la minima sbavatura avrebbe svelato troppo presto la verità, rovinando il lento progredire verso la coscienza della protagonista.
Giuliana Cutore
7/2/2016
Le foto del servizio sono di Dino Stornello.
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