Dalla gobba alla pancia
Cos'è Falstaff? Una nostalgica reviviscenza dell'antica opera buffa o un'anticipazione di ormai imminenti traguardi novecenteschi? E chi è Falstaff, nel senso non dell'opera ma del personaggio? Un unicum senza riscontri nella drammaturgia vocale verdiana? Oppure il punto terminale d'un “discorso” baritonale remoto e mai interrotto, nato con Nabucco e proseguito con Don Carlo (quello dell'Ernani) e Macbeth, Rigoletto e Rodrigo, Boccanegra e Jago?
A giudicare dagli esiti della sua interpretazione, Carlos Alvarez non sembra avere dubbi nel propendere per la seconda ipotesi. Così come è probabile, se fosse ancora possibile chiederglielo, che Luca Ronconi non scorgesse in quest'opera alcunché di “buffo” in senso antico (e che, pure qualora avesse individuato propaggini in tal senso, non avrebbe saputo cosa farsene). Dunque, in questa ripresa genovese di uno dei suoi ultimi spettacoli – reimpaginato da Marina Bianchi con la scioltezza dell'assistente fedele, ma anche della regista di polso – non solo è assente la dimensione farsesca, ma è assai misurata pure quella comica: sebbene non manchi qualche gag godibilmente acidula, come le oche caracollanti nel giardino di Alice e destinate a venir spennate sadicamente dalle quattro comari.
Ne sortisce, piuttosto, una livida clownerie dal retrogusto parabeckettiano (Cajus come presenza sinistra assai più che ridicola, Alice che si materializza in una semovente vasca da bagno davanti all'evocazione erotica fattane da Falstaff…); il tutto unito a un senso dell'artificio teatrale – macchine, ruote, leve e carrucole hanno un peso decisivo nell'impianto scenico scabro ed elegante di Tiziano Santi – che un po' crea, brechtianamente, straniamento e un po' contribuisce a risolvere quell'unico nodo che Verdi e Boito seppero sciogliere solo in parte: il transito dal naturalismo della commedia a un finale sotto il segno (molto elisabettiano, ma poco congruo con il resto dell'opera) di elfi, fate e folletti. Qui, con un bel colpo di teatro, Ronconi vira nell'onirico: la quercia di Herne emerge dal letto del protagonista addormentato, il parco di Windsor e le quattro pareti della Giarrettiera si fondono. Come Ford nel suo monologo, insomma, pure Falstaff deve chiedersi se sta vivendo sogno o realtà. E pure questo fa sì che tutto nel mondo è burla.
Alvarez non ebbe modo di lavorare con Ronconi a questo spettacolo (nato a Napoli e Bari con altri interpreti), ma sembra davvero il Sir John ideale per un Falstaff così anticonsolatorio e senza sconti per nessuno: la sua vocalità – scura, salda, omogenea – di baritono drammatico (sia pure con un fraseggio capace di flettersi a tutte le sfumature del comico) è capace appunto di ricondurre con naturalezza il Pancione shakespeariano alle altre grandi creature di Verdi in chiave di Fa, illustrandoci meglio di qualunque disamina musicologica il fil rouge che unisce Falstaff a Boccanegra o Rigoletto. Un Boccanegra in pensione, certo, o – se si preferisce – un Rigoletto con la pancia al posto della gobba. Ma la caratura vocale è quella. Non a caso è difficile, per Alvarez, scorgere parentele con Mariano Stabile e Tito Gobbi (i due massimi Falstaff del ventesimo secolo): troppo chiaro – per timbro e colore – il primo, troppo incline a sacrificare il canto “puro” in favore del recitar cantando il secondo. Semmai viene in mente, a voler cercare analogie o consanguineità, il Falstaff tutto “cantato” e tutto “verdiano” di Leonard Warren.
Il resto del cast è meno memorabile, ma assai professionale. Rocío Ignacio plasma un'Alice che abbina ottima quadratura musicale a giusta sensualità scenica; la coppia dei giovani innamorati convince più nella Nannetta di Leonore Bonilla, senza però che il Fenton di Pietro Adaini demeriti; Manuela Custer, come Meg, ha meno occasioni per sfoggiare, ma non perde un colpo. Nei panni di Ford, Alessandro Luongo si dimostra baritono di peso forse troppo leggero, almeno in rapporto alla dialettica che deve instaurare con il Falstaff di Alvarez, così come Barbara Di Castri appare un po' sottodimensionata negli affondi contraltili di Quickly (come complessione canora sarebbe una Meg ideale): ma l'uno e l'altra uniscono correttezza vocale a saporosità da autentici commedianti. E i comprimari – che poi in quest'opera tali non sono – oliano ulteriormente l'ingranaggio, con una menzione particolare per il Cajus di Cristiano Olivieri.
Andrea Battistoni, rispetto a un Falstaff parmigiano di qualche anno fa, sembra aver maturato la propria lettura musicale: la velocità incalzante resta la cifra distintiva della concertazione, ma all'interno – questa volta – d'un più meditato equilibrio. E l'orchestra del Carlo Felice lo asseconda bene, nel colore denso degli archi come nell'amalgama complessivo.
Paolo Patrizi
23/1/2017
Le foto del servizio sono di Marcello Orselli.