Falstaff
al Teatro Olimpico di Vicenza
Felice collaborazione quella tra la Società del Quartetto di Vicenza e Budapest Festival Orchestra (con Mupa Budapest) da cui nasce il Vicenza Opera Festival, ennesima realtà vicentina, che ha realizzato al Teatro Olimpico l'opera Falstaff, spartito del congedo di Giuseppe Verdi. Bisogna rilevare che qualche perplessità, a priori, aveva destato il progetto, non tanto per le ammirevoli intenzioni degli organizzatori, piuttosto per il luogo deputato. L'Olimpico, oltre a essere il teatro più antico del mondo e il più bello, è struttura delicatissima e di ristretti spazi. Pertanto non è stato da poco realizzare un'opera così complessa con ben tre cambi scena nelle ridotte dimensioni del teatro, nel quale collocare anche l'organico orchestrale di considerevole composizione, e di conseguenza equilibrare il rapporto tra "buca" e voci, poiché l'acustica molto rilevante nella struttura del Palladio in altre occasioni ha riservato problemi con opere che non fossero barocche.
I miei dubbi sono stati largamente smentiti dalla produzione cui ho assistito domenica scorsa. Il direttore Ivan Fischer ha brillantemente ridimensionato la compagine strumentistica, trovando una soluzione formidabile in fatto di acustica e sonorità che non ha compromesso il rapporto tra voce e musica. Per la messa in scena i registi Ivan Fischer e Marco Gandini hanno trovato una soluzione ottimale ancora a Budapest, poiché l'allestimento è in versione semiscenica: un solo praticabile di legno attraversa il palcoscenico, con una deviazione verso il proscenio, creando così tre "vie" d'accesso per i cantanti, una dalla buca, le altre dalle porte palladiane di destra e sinistra. L'orchestra è collocata sia nella contenuta buca, ottoni, percussioni e fiati, sia sul palcoscenico, tutti gli strumenti ad arco, in modo che i cantanti possano recitare anche tra i professori. Soluzione non solo efficace perché lascia giustamente intatta la struttura architettonica, ma anche originale e forse unica per una regia coinvolgente e ancor più teatrale giacché l'attore trova supporto solo sul suo gesto. La brillantezza del racconto è così coinvolgente e misurata che non abbiamo avuto nostalgia di scene e ambientazioni inglesi. Un concertatore che non ha podio ma sta nel mezzo, con parte degli strumentisti alle sue spalle, e inoltre interloquisce con i cantanti e si fa anima dello spettacolo, una soluzione azzeccata e brillante. E abbiamo avuto una lettura scenica, ideata da Gandini, che ci ha fatto apprezzare ancor più il testo attraverso il gesto mimico, gli sguardi e le misurate e divertentissime movenze di tutti i membri della compagnia, a tal riguardo rilevo che il regista ha misuratamente coordinato il tutto attraverso una recitazione elegante e mai eccessiva, come conviene a un testo (di Boito) superlativo. Straordinarie alcune soluzioni, come quella della gerla, messa sul palcoscenico ma non svuotata, si doveva un po' immaginare, ma ancor più il coinvolgimento degli orchestrali nella scena ultima, alcuni si sono uniti al Coro altri sono diventati folletti ed elfi che sbeffeggiano il protagonista. Un lavoro quello di Gandini che merita un riconoscimento con plauso e che forse è stata la miglior realizzazione del regista da me vista.
Ivan Fischer, nel saluto alla città pubblicato nel programma di sala, evidenzia come il titolo scelto, Falstaff, è opera in cui la parola ha importanza parallela alla musica e in quest'opera Verdi supera la prassi ottocentesca scegliendo la forma continua in un canto di conversazione, la stessa utilizzata dai compositori del ‘600 che nel Teatro Olimpico operarono, un filo rosso che lega la musica di ogni tempo in un luogo indicativo e sublime.
Memorabile il lavoro della costumista Anna Biagiotti che ha creato un costume tradizionale per il protagonista, gli altri interpreti maschili in look tipicamente British, sfolgoranti e coloratissimi quelli per le cantanti donne in stile anni '50. Una produzione sartoriale di altissimo livello, la quale brillava e non poteva passare senza ammirazione.
La Budapest Festival Orchestra ha fornito una prova superlativa, anche con la possibile penalizzazione della disposizione, infatti l'omogeneità generale era rappresenta da un timbro rilevante, una chiarezza di suono e precisione encomiabili. Indubbiamente il merito è anche del direttore Iván Fischer, il quale impone una lettura frizzante e ricercatissima nei colori, un ritmo sempre attento e prezioso, e un'accurata compartecipazione al canto reso attraverso un eloquente stile nel fraseggio.
Compagnia formata da nomi celebri ma per questo non sempre singolarmente mirabili, anche se il lavoro d'assieme era molto valido. Ambrogio Maestri è forse il Falstaff più celebre degli ultimi anni e il personaggio c'era a tutto tondo, tuttavia credo che il cantante pavese fosse in un momento non felice, poiché anche se sfumature e intenzioni erano consuete, la voce è parsa “stanca” e non sempre a fuoco, soprattutto nella mezzavoce.
Il Ford di Tassis Christoyannis era caratterizzato da una buona soluzione scenica ma il canto era poco rifinito e povero del fraseggio, note più positive per il Fenton di Xabier Anduaga, che dopo un inizio un po' incerto ha avuto modo di evidenziare una vocalità raffinata e precisa. I due scagnozzi di Falstaff erano gli strepitosi Stuart Patterson, Bardolfo, e Giovanni Battista Parodi, Pistola. Scenicamente erano un'elegante caricatura del vecchio teatro shakespeariano, idea azzeccata, con una valenza attoriale di prim'ordine cui si aggiunge un'esibizione canora inappuntabile. Bravissimo anche l'altero Dottor Cajus di Francesco Pittari, che si riconferma uno dei migliori artisti in questi ruoli non primari ma non per questo meno importanti.
Nel quartetto femminile si distingueva la Mrs. Quickly di Yvonne Naef, dotata di voce vellutata e armonica e capace di realizzare un personaggio spassoso ma sempre elegante. Laura Polverelli era una raffina ed esuberante Mrs. Meg attraverso un canto rifinito e incisivo. Eva Mei era una sofisticata Mrs. Alice, sempre musicale e precisa ma con alcuni vuoti nel registro grave, mente Sylvia Schwartz era una Nannetta deliziosa e forse troppo delicata, per non dire flebile, ma nel complesso funzionale.
Il piccolo teatro vicentino era esaurito in ogni ordine da un pubblico attento e divertito che al termine ha riservato un commiato trionfale a tutta la compagnia di cantanti e musicisti.
Lukas Franceschini
9/11/2018
Le foto del servizio sono di Kata Schiller.